L’utilizzatore finale del Pirellone

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Le parole con cui la moglie di Antonio Simone lo addita come “utilizzatore finale” dello strapotere e degli agi cumulati da faccendieri divenuti milionari all’ombra della sua carriera politica, conferma che Formigoni ha mentito ripetutamente e non può più illudersi di scaricare sui “Giuda”, che poi sarebbero i suoi migliori amici, la responsabilità  di aver creato un sistema di potere protervo, giunto al capolinea.
L’insofferenza per la vanagloria del Celeste non provoca più solo l’allarme degli altri clan in cui è frazionato l’ex regno berlusconiano. Più nel profondo, è la galassia di Comunione e Liberazione a non riconoscersi più nella degenerazione affaristica di un movimento ecclesiale ben altrimenti radicato nella società  lombarda. Umiliato dall’indifferenza ai suoi valori fondativi, assoggettati da troppo tempo all’ossessione personale di leadership di Formigoni.
Il governatore non ha fornito la benché minima versione credibile sui lussuosi omaggi ricevuti dagli inquisiti. Se avesse potuto, lo avrebbe già  fatto: si trattava solo di mostrare degli estratti conto. Ma è di ben altro che deve rispondere: da Giuseppe Grossi a Pierangelo Daccò a Antonio Simone, e chissà  che non ne spuntino altri, la Regione Lombardia da lui amministrata per diciassette anni ha generato vicende d’imprenditorialità  opaca, contraddistinte dal favoritismo e dall’appropriazione indebita di risorse pubbliche. Altro che sussidiarietà : una nuova razza predona ha inquinato l’associazionismo della Compagnia delle Opere che pure non è certo riducibile a questo malaffare.
Infrante le sue ambizioni politiche nazionali, non gli resta altra strada che le dimissioni. Ma qui subentra il calcolo temerario per cui Formigoni resta aggrappato al bordo della voragine in cui rischia di trascinare anche gli altri potentati della destra del Nord. Egli confida difatti che almeno fino all’anno prossimo Roberto Maroni non abbia interesse a consentire lo scioglimento dell’Assemblea regionale lombarda (undici inquisiti su ottanta membri), in cui la Lega conta ben venti consiglieri, cioè una rappresentanza che difficilmente conseguirà  in futuro. Fra i due Roberto che aspirano a raccogliere l’eredità  di Berlusconi e Bossi si era instaurato un patto per la sopravvivenza che le inchieste della magistratura rischiano di mandare in frantumi. Il primo, Formigoni, sperava di approdare in Parlamento l’anno prossimo (con relativa immunità ). Il secondo, Maroni, intravedeva nella successione alla presidenza della Regione Lombardia un solido avamposto per la ricostruzione del movimento leghista.
Calcoli mal riposti, non solo per il drammatico accelerarsi della crisi che potrebbe dar luogo a nuove devastanti scoperte giudiziarie, ma perché è la stessa rappresentanza politica del dopo Berlusconi & Bossi a subire contraccolpi imprevedibili. Se è vero infatti che su scala regionale pare difficilmente replicabile il sommovimento popolare con cui Giuliano Pisapia ha rovesciato l’egemonia della destra nella città  di Milano; e se anche il commissariamento del Pirellone non può dar luogo che provvisoriamente a un governo tecnico su scala regionale; è un inquietante vuoto democratico quello che si prospetta in seguito alla bancarotta di una classe dirigente.
Così la Lombardia sospesa nel vuoto diviene nel bene e nel male un laboratorio politico nazionale. Qui la notte dei lunghi coltelli in corso nella Lega apre il varco a nuovi movimenti reazionari e localisti, con pericolo di degenerazioni estremistiche. La parola d’ordine dell’uscita dall’euro, lanciata da Beppe Grillo, nella sofferenza sociale provocata dalla recessione potrebbe trovare sponsor ben più potenti. E lo stesso Pdl sta vivendo scissioni centrifughe di marca municipalistica. La destra del Nord va in frantumi ma resta un’energia dalle potenzialità  dirompenti in cerca di nuovi leader populisti. C’è da sperare che la Chiesa ambrosiana e il cattolicesimo lombardo esercitino la funzione moderatrice che gli è propria, in seguito alla débacle di Formigoni. E che la sinistra sappia ripercorrere la strada della partecipazione democratica di base in cui ha saputo credere a Milano.
Ma se Formigoni non verrà  sollecitato anche dalla sua parte politica a farsi da parte al più presto, restituendo la parola ai cittadini, il pericolo è il caos.


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