Con Diaz senza se e senza ma

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Come Luigi Pintor parafrasò Gertrude Stein («una rosa è una rosa è una rosa») per ricordare a tutti quali fossero le specificità  del manifesto («un giornale è un giornale è un giornale»), così Fausto Bertinotti parafrasa entrambi per riportare la discussione su Diaz di Daniele Vicari nel s uo alveo naturale: «Un film è un film è un film». «Penso che sia una misura di igiene mentale e politica tenere distinti la discussione politica, la necessità  di colmare un vuoto sulle giornate di Genova e la valutazione di un film come quello di Daniele Vicari». Se per la prima sono utili il dibattito pubblico, i saggi, gli articoli e le inchieste, Diaz dovrebbe semmai accendere una discussione sulle domande che pone apertamente: com’è stata possibile una sospensione così violenta e prolungata dello Stato di diritto? Una domanda che chiamerebbe in causa la polizia e le istituzioni del nostro Paese. Invece accade che quest’ultimi (dai vertici delle forze dell’ordine ai responsabili politici dell’epoca, in primis l’ex vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini che non ha mai chiarito i motivi della sua presenza nella sala operativa della Questura genovese nei giorni del G8) assistano silenziosi a una baruffa su ciò che Diaz dice o non dice.
Bertinotti, che all’epoca del G8 era segretario dell’unico partito considerato parte integrante del cosiddetto «movimento dei movimenti», Rifondazione comunista, approfitta di quest’intervista per difendere a spada tratta il film, affidare la verità  sulla repressione genovese a un «io so» di pasoliniana memoria e chiedere a tutti i protagonisti di allora di fare autocritica. «Ad esempio, io penso che da quelle giornate non abbiamo tratto una conclusione drastica: sciogliere Rifondazione per metterci a disposizione della costruzione di un soggetto politico direttamente figlio del movimento». 
Parla di quanto non è accaduto ieri per riferirsi a ciò che potrebbe accadere domani? Sul manifesto si discute vivacemente di un nuovo soggetto politico che vuole raccogliere istanze e pratiche dei movimenti degli ultimi anni.
Esattamente. 
Oggi però parliamo del film Diaz e delle polemiche che sta suscitando.
Su questo mi trovo in una posizione curiosa, poiché condivido moltissime cose che amici e compagni critici hanno detto e contemporaneamente apprezzo moltissimo il film. Sto mandando alle stampe un libro, scritto con Dario Danti, che contiene anche una riflessione autocritica sulle conseguenze non tratte da Rifondazione sulla sua presenza in quel movimento. Io penso che il grande apprezzamento su quel movimento, che io mantengo per intero, dovrebbe combinarsi con una riflessione autocritica che ognuna delle componenti di quel movimento dovrebbe fare di sé. Ciò aiuterebbe la riflessione sull’oggi. Aggiungo che la costruzione di Genova aveva consolidato un sistema di relazioni che aveva prodotto un metodo politico, andato perso, di grandissimo pregio, che consisteva nel sostituire a una qualsiasi forma di centralismo democratico un altro modello, basato sulla compatibilità  di quello che tu fai con la mia presenza: non è che tu devi fare quello che dico io, ma io faccio quello che è compatibile con te e viceversa. Questo ha determinato una possibilità  di coesistenza delle diverse anime del movimento.
Una delle accuse che si fanno al film è di non far capire il perché della repressione.
Userei la formula di Pasolini: «io so» che quella repressione è stata decisa in un consesso internazionale della stessa dimensione mondiale del movimento. Penso che ci sia stata una decisione strategica di usare una sistematica repressione per distruggere quel movimento. La catena di comando che ha deciso la repressione ha coinvolto in questa decisione strategica diversi governi, compreso quello italiano, in una catena gerarchica che faceva capo direttamente al capo della polizia. Per fortuna quel movimento portava dentro una pulsione pacifista e non violenta, tant’è che all’uccisione di Carlo Giuliani e alla repressione nei cortei c’è stata una reazione di protagonismo e non di replica militare. La scelta di non organizzare servizi d’ordine scaturisce da quella cultura. Per fortuna, perché se la cultura fosse stata quella della mia generazione e la pratica fosse stata quella dei servizi d’ordine noi avremmo avuto una strage e la distruzione del movimento. Non capisco però cosa c’entri tutto questo con il film, che non a caso si chiama Diaz e non Genova 2001. Non si può chiedergli di fare un’operazione analitico-saggistica. Non c’è bisogno di essere Guy Debord per sapere che un film è la capacità  di organizzare uno sguardo, che abbia un suo specifico. Non devi aspettarti che ti dia ragione nella tua interpretazione di un processo storico. Questo film peraltro, accendendo i fari sulla Diaz e producendo un’operazione cinematografica di alta intensità  su un universo concentrazionario in cui ci aiuterebbe di più Foucault che la saggistica, fa un’operazione altamente politica, ma questo altamente politico è intrinseco al quadro cinematografico. Non gli puoi chiedere di spiegarti com’erano i manifestanti, chi erano, qual era il contenuto delle loro rivendicazioni, le loro parole d’ordine, da dove venivano. Si sta parlando del popolo della Diaz e della macchina da guerra che si è attivata contro quel popolo. Da questo punto di vista è importante che il regista guardi le persone, non chi c’è dietro. Un film è un film è un film, insomma. 
È azzardato considerarlo il Garage Olimpo italiano? 
No. Diaz è un film metapolitico, perché ci mostra come nello stato di eccezione il potere sia incondizionato e incontrollato e mostri il suo volto disumano e disumanizzante. Il potere soverchiante qualunque altra dimensione della cultura, del diritto, della persona, che si pone come assoluto e si erge come puro dominio sulle persone e sui corpi. Parla di Guantanamo, dei luoghi della tortura algerina, della Cecenia, di tutti quei luoghi in cui un potere incontrollato esercita il suo dominio di violenza biopolitica sui corpi indifesi delle persone. È questo il linguaggio che affiora, è questo quello che ci dice. Guarda l’intensità  con cui si vedono i corpi, le ferite, il sangue, senza che ci sia alcunché di guardonesco. C’è uno sguardo insieme partecipe e spietato sulla violenza. Naturalmente questo potere incontrollato ha un elemento quasi antropologico che affiora: il disprezzo per l’altro diverso da te. Quell’altro, che sia il pensionato, la ragazza o il giornalista di un giornale di destra, sono vissuti dalle forze d’oppressione come alieni, sono semplici minacce, comunisti, sono così altro da te che li puoi massacrare. A questo si aggiunge un carattere fascistoide, particolarmente violento e oppressivo sul corpo della donna. Su questo secondo me si poteva avviare una discussione fruttuosa, e contemporaneamente si poteva chiamare in causa la polizia. E invece stiamo a discutere d’altro.


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