I cinesi alla conquista di Milano

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MILANO. Il ristorante si chiama Whampoa, l’indirizzo è piazza Velasca numero 4. All’ora di colazione è pieno di ragazze in tailleur e di businessman in pausa pranzo. Tutti a trafficare con le bacchette e a sorbire tè verde a piccoli sorsi. È il cuore della City milanese, due passi da piazza del Duomo, quattro dalla sede della Borsa e poi di fronte c’è la Torre Velasca, ventisette piani di cui diciotto di uffici. Guang Chuan Hu – o, come direbbe lui, perché in Cina si mette prima il cognome – Hu Guang Chuan, sfodera un sorriso radioso. «Tutto bene? Desidera un amaro o un limoncello?». Passa tra i tavoli, scambia due chiacchiere con i clienti, si ferma con il rappresentante della cantina Antinori per le ordinazioni. Calza scarpe Gucci, ha un cinturone con la fibbia di Hermes, un dolcevita di cachemire leggero, la giacca blu con le toppe di pelle e jeans Wrangler. Parla un italiano perfetto.
Aveva dodici anni quando è arrivato in Italia. Un bambino che fuggiva dalla miseria, dalle tessere che razionavano il pane, da un paese che sembrava non avere futuro. Era il 1979. Da soli otto anni era approdato alla Biennale il primo film della Cina popolare e la diplomazia del ping pong aveva lavorato per preparare la prima visita di un presidente americano nella terra del Dragone.
Guang Chuan raggiungeva, insieme a un fratello maggiore stanco di fare l’insegnante e di non riuscire nemmeno a comprarsi le sigarette, l’Italia. Quel paese misterioso, lontano, che però aveva già  dato accoglienza a un’altra sorella, chissà  come approdata quaggiù negli anni Sessanta. Trentatré anni dopo è il padrone di un ristorante nel centro più centro della città . Ha nove dipendenti, di cui otto cinesi e uno solo italiano, una Chrysler lussuosa, tre figli che vanno al liceo. Ha fatto venire qui anche i genitori e adesso che sono vecchietti vivono con lui e a curarli ci pensa sua moglie. Dice che ormai ha scordato la sua lingua – «gli ideogrammi è un casino, se non scrivi sempre, te li dimentichi» – e che però i suoi Matteo, Elena ed Elisa, il sabato vanno alla scuola cinese. La scuola che ha fondato e dirige il fratello che era insegnante.
Hu Guang Chuan è nato a sud di Shanghai, nella provincia dello Zhejiang, in una città  che si chiama Weng Cheng. Piccola, per le taglie cinesi: solo duecentomila abitanti. Viveva in una casa di legno a due piani, di quelle che la Cina di oggi ha raso al suolo per costruire palazzi. Il 70 per cento dei cinesi di Milano, 21.344 secondo l’ultimo dato dell’anagrafe, viene da quella zona. In pochi anni sono diventati il quarto gruppo etnico, dopo gli italiani, i filippini e gli egiziani. Ma i dati reali sarebbero molto lontani da quelli ufficiali e c’è chi conta – esagerato? – 80.000 persone. Comunque il cognome Hu, da quest’anno, ha sbaragliato perfino il cognome milanese per antonomasia, Brambilla, scalzandolo in basso nella classifica. Solo sotto la Madonnina, sono in 3.694 a chiamarsi così. Resistono, in testa, i Rossi. Ma tra i primi dieci cognomi più diffusi in città  tre – Hu, Chen e Zhou – sono cinesi. Così, questa classifica dei cognomi diventa un indicatore dell’evoluzione della città  e dei suoi abitanti. Non è successo così negli anni ‘50 e ‘60, quando si sono diffusi i cognomi meridionali?
Come gli operai venuti dal sud, anche il cinese Guang Chuan è andato alla scuola delle 150 ore. Era troppo grande, per stare coi piccoli; e, allora, non capiva una parola di italiano. Racconta: «Veniva perfino un interprete per quattro ore la settimana per aiutarmi e i compagni, tutti adulti, mi trattavano benissimo». Lì, nella scuola di via Gallarate, gli alunni cinesi erano tre. Intanto, insieme alla nuova lingua, sui banchi di scuola il buddista Guang Chuan aveva incontrato la religione cattolica e, con la sorella, aveva deciso di farsi battezzare. Così da trent’anni si chiama Luca, e Guang Chuan è sparito perfino dai documenti. A sedici anni ha cominciato a lavorare nel ristorante del padre, che in Cina dirigeva il centro alimentare del villaggio e che aveva raggiunto i figli a Milano. La cucina cinese era una novità  esotica – c’erano 20 ristoranti cinesi, adesso sono 400 – un business promettente per chi fa parte di un popolo di imprenditori e di lavoratori instancabili. Poi, a 24 anni, Luca si è messo da solo.
Tra chi fa impresa a Milano, oggi, i più intraprendenti sono ancora loro, i cinesi. Sono imprenditori un cinese su sette. Un’impresa su cinque è fondata da uomini sotto i 29 anni e una su due ha per titolare una donna. Quasi il 20 per cento dei bar della città  è in mano ai cinesi. Poi ci sono i negozi – il commercio tutto a un euro, che in tempi di crisi conosce un’esplosione, è sempre made in China – i centri massaggi, le edicole e i parrucchieri. Tagliarsi i capelli costa meno della metà  che da un barbiere italiano e i chioschi dei giornali non hanno più orario. Una volta stavano dalle parti di via Paolo Sarpi, la Chinatown milanese; ma adesso vivono dappertutto, da Villapizzone a via Padova, da Affori a Quarto Oggiaro. Marco Accornero, segretario dell’Unione artigiani della Camera di Commercio, ma anche presidente dell’associazione che riunisce gli imprenditori immigrati, racconta che il loro vantaggio competitivo sta soprattutto nelle tariffe: imbattibili per chi invece rispetta contratti e orari di lavoro. «I cinesi – dice – è come se avessero trasferito qui un pezzetto del loro Paese: lavorano sempre e rispettano le loro regole, non le nostre».
E aggiunge: «Sono una comunità  molto chiusa, che raramente si allea con le associazioni di categoria; hanno una loro rete di relazioni che gli consente di essere autonomi in tutto, a cominciare dal credito». Ma per Luigi Sun, da cinquant’anni in Italia, storico portavoce della comunità , «hanno uno spirito di adattamento fortissimo, hanno molta voglia di lavorare, non creano problemi a livello sociale». Avete mai visto, chiede, un cinese ai semafori? O a rapinare le ville? Luca-Guang Chuan, invece, dice che la pretesa chiusura dei suoi connazionali ha una sola ragione: «Dipende dalla lingua, e siccome lavorano sempre tra loro non riescono a imparare l’italiano». Piuttosto, il signor Hu trova che i nostri siano due popoli simili: «Siamo come gli italiani del Sud, legati alle tradizioni e abbiamo un senso della famiglia fortissimo».
Opinioni, certo. Per Achille Colombo Clerici, da poco presidente dell’Istituto Italo Cinese, si tratta di due culture radicalmente diverse: «Noi siamo individualisti, loro ragionano solo dentro al contesto. Il problema è quello di capire la cultura cinese e cogliere le differenze con quella occidentale». E se anche le piccole cose mostrano le grandi, allora Clerici aggiunge che «loro bevono l’acqua calda, noi fredda; loro scrivono prima il cognome, noi il nome; loro scrivono gli indirizzi a partire dalla città  e indietro fino al nome». Ma queste, appunto, sono opinioni. La realtà  è Luca che al telefono grida “Ciao bella!” e che da questa piccola città  («Nel 2003 sono tornato in Cina e la modernità  adesso è là ») non se ne andrà  mai: «In Cina sono nato, ma il mio Paese è l’Italia».


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