«Compra Italia» E Bonomi trova un miliardo

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Tanto più con la prospettiva di impiegarli in Italia e Spagna, i due grandi malati d’Europa dopo la Grecia. L’intuizione però è stata giusta. Andrea Bonomi è a un passo dall’obiettivo. La scorsa settimana Investindustrial ha effettuato il terzo closing del nuovo fondo, il quinto creato dal private equity di Bonomi, superando quota 1 miliardo di euro. «In questo momento – racconta – il mercato è drammatico per il lancio di nuovi fondi. In Italia e Spagna anche peggio». Il patron di Investindustrial è riuscito a raccogliere fiducia, e capitali, alzando anche l’asticella rispetto all’ultimo fondo, che era stato da un miliardo. Certo «se avessimo chiesto denaro da investire in Italia per crescere sul mercato italiano — riconosce Bonomi — non li avremmo trovati. Invece l’idea di puntare su aziende italiane da globalizzare convince. Visto da fuori, il nostro Paese presenta ancora opportunità  interessanti di investimento». 
Il nuovo fondo inglese è stato sottoscritto quasi esclusivamente da investitori esteri. Di italiani c’è Intesa Sanpaolo, a fianco di fondi sovrani asiatici, università  americane, fondi pensione del Nord Europa. «La ragione per cui ci hanno affidato capitali è perché siamo fuori dall’Italia e abbiamo una struttura globale formata da 52 persone di cui 47 all’estero, su cui fare leva per espandere il business delle aziende in cui entriamo». Ma c’è anche un’altra ragione, rivela il patron di Investindustrial: «Molti investitori sono venuti con noi temendo di restare fuori dall’Italia».
L’obiettivo di Bonomi è trovare in Italia e Spagna aziende da sviluppare e globalizzare. Lo ha già  fatto con Permasteelisa, con Ducati, da cui starebbe per uscire passando la mano ad Audi, con StroiliOro, con Elilario. «Il trend globalizzatore è quello che gli investitori sono pronti a seguire — spiega Bonomi —. Il potenziale c’è, ma devi dimostrarlo. E noi abbiamo dato risultati più che positivi a chi ci ha affidato capitali», che sono stati impiegati per il 70% in acquisizioni di aziende con vocazione internazionale e per il restante su società  con business locali. «La nostra teoria è che la migliore difesa è l’attacco ed è questo che vendiamo agli investitori. Mi spiego meglio: se vedi l’Italia da dentro, pensi che non ci sia possibilità  di reagire alla crisi. Ma dall’esterno la sensazione è diversa: ci sono prodotti in grado di aggredire il mercato e conquistare quote». Peccato solo che «l’imprenditore italiano fatichi ad accettare un partner di capitale». Chissà  che in tempi di credit crunch non abbiano meno timori ad aprire la porta.


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