THE FAMILY Quando la politica è un affare per figli, parenti e amici Il tetto Folclore

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Se volete trovare la famiglia esagerata, se cercate il sud familista tipizzato e mostrificato dalla sociologia, se avete nostalgia dell’antico Meridione eccessivo di “mammeta, pateto, frateto e sorete”, è al Nord che dovete andare. A Gemonio infatti casa Bossi è più napoletana di casa Cupiello, che in fondo è solo teatro. E gli affiliati e i compari sono più cosca nella Brianza che nella Corleone di oggi. Solo a Gemonio e non più a Passopisciaro potete stipare, in uno stesso camper, il padre bauscia in canottiera e la mamma “mavara” che prepara la teglia di polenta ma ogni tanto molla sganassoni ai ragazzi e la sera si dedica ai riti magici. E, nei sedili di dietro, tanti figli mammoni, tonti e spacconi, che mostrano il petto alle ragazze ma, ad ogni sorpasso, fanno il gesto dell’ombrelloe le corna. Nel mezzo,a dividere i ragazzi che, scomposti, litigano e scalciano, c’è la comare, l’energica zia Rosy, ma con il fidanzato furbetto che allunga le mani. Aggiungete i cani akita, l’ombrello da spiaggia, sul tetto una camera d’aria da usare al mare come un salvagente e, per completare la famiglia Bossi, liberate quell’armamentario espressivo fatto di pernacchie e diti medi di cui al Sud ormai ci si vergogna e che invece in un pezzo di nord è il codice della classe dirigente. Sembra un film comico, un paradossale Verdone, ma è invece la realtà . Non un’opera dell’ingegno espressionista della commedia all’italiana ma il profondo suda pochi chilometri da Milano, la rinascita perfetta del meridionale scomparso: Franchi e Ingrassia, Tiberio Murgia, don Fefè, Saro Urzì e tutte le maschere della pizza e della pasta al sugo.

In fondo non c’è mai stato uno studioso, se si escludono gli allievi dell’antropologia criminale di Lombroso, che abbia analizzato la famiglia delle valli settentrionali. E se è vero che Bossi, come spiega Ilvo Diamanti, «ha rovesciato la questione nazionale storicamente identificata con il mezzogiorno» e ha interpretato «la cosiddetta questione settentrionale espressa dalle provincie pedemontane del Lombardo e del Veneto» è molto probabile che anche questa sua famiglia sia tipica e paradigmatica di quella Pedemontania.

In mancanza di antropologi, possiamo tuttavia ricorrere alla letteratura, da Tozzi a Bacchelli a Pasolini, ai documentari televisivi di Mario Soldati, e alle vecchie, straordinarie parodie di Tognazzi e Vianello: – Scusi, lei è il signor Luison Borbottin?.

«Prego, Borbottin Luison». – Vedo che sta lavorando a questo tronco. «Troncio». – E cosa ne ricava? «Uno stuzzicadenti e tanti trucoli». – Vuole dire trucioli! «Voi turisti ignoranti li chiamate così, ma qui nella val Clavicola sono il troncio e i trucoli». – E quanto tempo ci mette a fare uno stuzzicadenti? «Sei o sette mesi se ci lavora tutta la famiglia, anche le donne e il cane».

Sono idealtipi dal vago sapore razzista che, con il tempo, sono diventati monumenti definitivi, appaiati al brigante di Modugno, alle coppole storte: il valligiano del Nord e il sanfedista del Sud, fratelli di sangue, gemelli di caverna premoderna.

Pensavamo che tutto questo folclore fosse sepolto insieme ai nonni dell’Italia rurale, spazzato via dai tempi: credevamo che i dinosauri si fossero estinti.E invece Bossi ci svela che la famiglia del valligiano è il perfetto paradigma studiato da Banfield in Lucania, con tutti quei trucchi e quell’origine da contadinello inurbato: «imbrogliavo la fame con un panino», «vivevo spesso ai limiti della legalità ». E poi c’è la Scuola Radioelettra, la finta laurea e i titoli comprati, il dialetto e le pulsioni pasoliniane nel rapporto con la terra madre, «la terra del rimorso» come l’antropologo De Martino chiamava il Salento dei tarantolati, la zona della magia, mille paesini tutti uguali e tutti inaciditi dalla voglia di risarcimento sociale.

E persino l’odio per Roma è lo stesso borbottio, al Nord come al Sud, che al degrado immorale della capitale dà  la colpa di una marginalità  storica e geografica: «la vera mafia sta a Roma» diceva il vecchio Napleoene Colajanni, quello ottocentesco, e «Roma ladrona» dice Bossi ancora nel 2012.

E ci sono i figli mammoni, le patacche, la famiglia come pasticcio e come bandiera, la famiglia come impresa, non società  per azioni ma società  per parenti. Anche il linguaggio e i simboli sono modesti e domestici.

Quella scopa nelle mani di un ex ministro degli Interni di uno dei Paesi più industrializzati del mondo non è la scopa bolscevica che spazzava via i banchieri ma lo strumento della mamma massaia che insegue i figli monelli. Con la differenza che al sud ci sono madri che consegnano i figli traditori ai loro carnefici.

Nel mezzogiorno mafioso viene sacrificato il legame naturale agli interessi della famiglia allargata, alla cosca. Solo al Nord resiste l’antico familismo del signor Borbottin Luison, del Bossi che familizza persino gli elementi irriducibili: un intero partito, oppure la badante che nel meridione è invece tenuta a distanza in un rapporto di sudditanza e mai di predominio come quel Clemenza del “Padrino”, capobastone fidatissimo che però non asservisce mai il padrone, non realizza certo la dialettica hegeliana nel cuore della mafia. L’unico elemento di modernità  è quel “family” che il tesoriere della Lega aveva scritto sulla più preziosa delle cartelline, family come principale voce di bilancio, la parola inglese per ingentilire il delitto, per nascondere l’ingombrante scandalo, un gioco linguistico di copertura che alla fine ottiene l’effetto opposto. Family è infatti l’ironia disperata di quel tesoriere gorilla che sembra il gemello di Modugno: «Mammeta, pateto, frateto, nonneta, soreta, zieta… o cane. Aaaaaaaaahhh! Iatevenne, iatevenne».


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