L’Umberto che piaceva a tutti

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E non è un caso che esca di scena quasi contemporaneamente all’ultimo rimasto dei dinosauri televisivi di quell’epoca, cioè Emilio Fede. Potevamo detestare politicamente Berlusconi, ma Bossi, come Funari, Fede, il primo Ferrara, faceva comunque parte di un panorama così primi anni ’90, che sono poi gli anni d’oro di tutta la nostra tv, che ci metteva, malgrado tutto, allegria. Bossi, l’uomo che già  nel 1989 aveva dichiarato «fino a che io non rubo, nella Lega non ruba nessuno» si era platealmente adattato a tutti i modelli, non solo politici, che lo avevano preceduto. Rivoluzionario, bottegaio, piccolo borghese, militante, bravuomo, statatalista e antistatalista, pacifista e guerrafondaio, poeta e canzonettista. Quando apriva bocca, se riusciva a superare gli scogli della grammatica e dell’italiano, passava dallo slang lombardo agli slogan rivoluzionari da leaderino del’68 precipitato dal pianeta Duplex dei vecchi albi di Nembo Kid. 
Era come se dall’esplosione dei politici di tutti i partiti fosse nata questa tartaruga Ninja che li aveva fagocitati e mal digeriti. Più un groviglio da sciogliere con l’Alka Seltzer che un personaggio postmoderno. Una sorte di «briccone divino» mitologico che ce l’aveva sempre duro, armato di kalashnikov e di manico. Un misto di Don Backy e di Celentano, che col nome d’arte di Donato aveva già  tentato la sorte a Castrocaro con la canzone «Col caterpillar» della quale sappiamo solo pochi ma illuminanti versi: «noi siamo venuti dall’Italy/Abbiamo un piano/per far la lira /Entriamo in banca col caterpillar/e ci prendiamo il grano». Se avesse vinto a Castrocaro chissà  come sarebbero andate le cose… 
Nei primi anni, qualcuno (ma chi?) tenta di costruire un’immagine diversa del leader della Lega. Un Bossi che legge Marcuse, De Felice, Pareto, Adorno, Weber e poi i classici del federalismo: Cattaneo, Gioberti… Mah. Intervistato poco dopo a Mixer da Minoli Bossi non riesce a ricordare nemmeno un titolo di un libro letto. Ma proprio il Bossi ignorante che rutta e grugnisce, il Bossi armato è quello che piace non solo al suo pubblico, ma anche a quello dei salotti milanesi e televisivi. Ci casca in pieno Giorgio Bocca, che ne parla come fosse un eroe moderno: «Bossi ha il genio dei narratori popolari per i paragoni che fa, le immagini che crea. Del resto è un movimento nato tra le montagne del Bergamasco… », e se ne serve per attaccare quella che definisce «la subcultura di sinistra» dei vari Benni, Gino e Michele, Avanzi, Paolo Rossi «e mediocrissima compagnia» (Repubblica, 1993). Su Bossi ci cascano tutti: Philippe Daverio ma anche Donatella Pecci Blunt. Ci cascano Funari, Fede, Chiambretti e soprattutto Gad Lerner, il primo che ne vede le potenzialità  televisive. John Moody, su Time, scrive che «Bossi è il politico più temuto e genuinamente populista – se non popolare – che l’Italia ha prodotto dopo Mussolini». E, infine, Enzo Biagi, che su Panorama (’92) scrive: «Ho dovuto ravvedermi: Bossi è un politico fine con un grandissimo istinto (…) Diceva Tolstoj che i Napoleoni non nascono a caso». Con tutta la stima per Biagi, questo paragone con Napoleone non è il massimo. Bossi è un politico furbo, come dimostrerà  nella sua unione con Berlusconi, ma non esprime mai grandi finezze.
In vent’anni di potere i leghisti riusciranno a produrre poco e niente, oltre a prendersi parte della Rai. Il Barbarossa di Renzo Martinelli, un mattone ridicolo che sarà  un disastro al botteghino, dove Bossi apparirà  come un fantasma in una sequenza. Un programma tv, fortemente voluto da Bossi, «Follia rotolante», un mischione di rock lombardo e voci e volti delle valli del Nord. Ricordo anche un «Busto in fiore», marchettone su Busto Arsizio. 
Alla fine lo hanno distrutto la famiglia, i figli impossibili, le voglie di capi e capetti, il gioco delle poltrone. Lo aveva detto Miglio: «I nostri politici quando vanno a Roma si corrompono». Ma non era solo la capitale il male.


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