Islam, il velo rivendicato come simbolo di identità 

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Non penso che ci possano essere dubbi: il «femminismo islamico» si è affermato sempre di più nell’ultimo ventennio e ha svolto un ruolo di rilievo nel promuovere quella che è stata chiamata la «primavera araba». Si deve anche al coraggio di centinaia di giovani donne se lo scorso anno un’ondata di rivendicazioni politiche ha investito, in nome della libertà  e della democrazia, i regimi autoritari che opprimevano i paesi del Maghreb e del Mashrek.
In un saggio intitolato Donne del mondo arabo in rivolta (all’interno del volume Libeccio d’oltremare, edito da Ediesse lo scorso anno) Renata Pepicelli ha documentato il notevole contributo che in Tunisia e in Egitto migliaia di giovani donne hanno dato alla battaglia contro il dispotismo politico, mettendo spesso a repentaglio la loro vita. E ha ricordato come il governo tunisino avesse per decenni represso spietatamente ogni iniziativa a favore dell’uguaglianza di genere (celebre, in questo ambito, il caso della Association tunisienne des femmes démocrates). In Egitto le cose non erano andate molto meglio: durante un’operazione di rastrellamento di piazza Tahrir da parte della polizia più di venti donne erano state arrestate e trascinate al commissariato dove erano state picchiate, sottoposte a scariche elettriche, obbligate a denudarsi. 
Più di recente nel suo libro Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica (Carocci 2012, pp. 159, euro 14) Renata Pepicelli ha fornito una ulteriore prova del coraggio delle giovani donne islamiche. A questo fine ha illustrato la loro crescente autonomia nell’attribuire all’uso del velo un significato di grande rilievo e a considerare quindi il velo come un simbolo irrinunciabile. Come è ovvio, Pepicelli ha fatto riferimento soprattutto alla Francia, dove le giovani donne islamiche hanno rivendicato e rivendicano tuttora l’assoluta legittimità  dell’uso del velo in tutte le sue forme. Ma non ha dimenticato che anche il parlamento italiano intende imporre pesanti limiti all’uso del velo da parte delle donne islamiche. E questa connessione ha reso il suo libro di particolare interesse, sul terreno storico, politico e in qualche modo anche estetico.
In Francia la discussione tra i favorevoli e i contrari all’uso del velo islamico sembra diventata quotidiana. Il dissenso riguarda sia l’hijab, che copre soltanto il capo delle donne, sia il niqab che ne nasconde anche il volto, lasciando scoperti soltanto gli occhi, sia infine il burqa, che nasconde anche gli occhi delle donne assieme al loro corpo. In Francia le donne velate sono tuttora una ristretta minoranza, ma nonostante questo i francesi – sia di destra sia di sinistra – si sono schierati contro di esse emanando leggi che non è esagerato definire di carattere razzista e discriminatorio, o, meglio ancora, «neo-colonialista». Una prima legge, del 2004, ha vietato l’uso del velo a scuola. Una seconda legge, del 2011, ha vietato in assoluto la copertura del volto, e cioè l’uso del niqab e, a maggior ragione, del burqa.
Le donne che avessero violato queste norme sarebbero state sottoposte a una pesante ammenda. E chi le avesse indotte a usare il niqab o il burqa avrebbe rischiato un anno di reclusione e trentamila euro di multa. Si è dunque trattato di una decisione illegale, come Amnesty International ha sostenuto e come un gran numero di giovani donne islamiche ha denunciato formalmente, con grande coraggio. E si è trattato anche di una violazione del diritto internazionale se è vero che l’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sostiene che «ogni individuo ha il diritto alla libertà  di pensiero, di coscienza e di religione» oltre che la facoltà  di manifestare la propria religione sia in pubblico che in privato.
Non posso chiudere questo rapido commento del testo di Renata Pepicelli senza segnalare, come ho accennato, che il parlamento italiano si appresta a discutere una legge non molto diversa da quella francese. Ed è molto probabile che la approvi rapidamente. Ma ancora più grave è il fatto che, in mancanza di una normativa specifica, nell’Italia del Nord numerosi comuni, quasi tutti a maggioranza leghista, hanno emesso severe ordinanze amministrative contro donne islamiche che indossavano il niqab. In Italia i corpi delle donne che indossano veli integrali – ha scritto Anna Simone – si trasformano in veri e propri «corpi di reato».
Chiudo con la speranza che il bel libro di Renata Pepicelli riesca ad offrire un duplice, importante contributo. Mi auguro che per un verso diventi uno strumento di difesa dei diritti delle donne islamiche presenti in Italia e, se è possibile, in Europa. Per un altro verso mi auguro che contribuisca in qualche modo a fare del «femminismo islamico» un movimento di giovani donne impegnate in una battaglia contro il dispotismo islamico e contro il dispotismo occidentale. Vorrei, in altre parole, che «il velo nell’Islam» desse inizio alla primavera araba del femminismo.


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