Piazza Fontana e anni ’70, ma quali trame. Fu lotta di classe e l’abbiamo persa

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Sarà  che quella generazione ormai attempata il vizietto di occupare il centro della scena non lo ha mai perso: ingombranti da incanutiti quanto da ragazzi? Sarà  che scannarsi su piazza Fontana, ormai, non fa più male a nessuno mentre la Diaz somiglia a quel che era “all’epoca dei fatti” il 12 dicembre?

O non sarà , invece, che la riposta la offre tra le righe Eugenio Scalfari nel suo articolone, già  citato in questo sito da Lanfranco Caminiti? È probabile Lanfranco abbia ragione e che sullo sfondo della diatriba repubblichese ci sia davvero una scontro interno che riguarda ben più attuali faccenduole, tipo l’opportunità  o meno di sostenere a spada tratta un governo che finirà  per far rimpiangere al Paese Silvio il Puttaniere.

Ma non c’è solo quello. E non c’è solo piazza Fontana. Come li tocchi li tocchi, con gli anni ’70 ti ci scotti. Il motivo è ovvio: capita perché il Paese in cui viviamo è un prodotto di quel che accadde allora, dell’esito del conflitto durissimo che si combatté in quel decennio e dei mai più modificatisi equilibri (anzi squilibri) sortiti da quella vicenda. Degli anni ’70 il presente è ostaggio. Nel senso letterale della parola.

I ragazzi di oggi possono non sapere niente di via Fani o piazza Fontana, ma se tirano un sassetto contro i blindati in piazza san Giovanni si beccano cinque anni di galera, uno sproposito che grida vendetta e che tutti accettano senza muovere un dito, proprio perché ci sono state via Fani e piazza Fontana. Se gli italiani più di qualsiasi altra popolazione si fanno massacrare socialmente senza osare neppure un accenno di resistenza, senza “occupy” niente, tapini e sudditi come nessun altro in Europa, è per il peso, l’ipoteca e il ricatto che esercita il ricordo di quel decennio.

Di questo si parla quando si parla di piazza Fontana. Di questo parla Giordana. Di questo parla Scalfari. Non di bombe raddoppiate o triplicate dalla fantasia dei visionari.

Dicono, molto semplicemente, che se le cose sono andate come sono andate è solo per colpa di quelle mai identificate forze occulte che sviarono il naturale corso della storia italica, boicottando le magnifiche e progressive sorti che ci attendevano, ora con la strategia della tensione, ora con i golpe tentati o minacciati ora eliminando l’uomo chiave dell’architettura democratica. Il santo che di fronte a chi rinfacciava al suo partito la corruzione santamente dichiarava: “La Dc non si farà  processare nelle piazze”.

Ah, se solo gli onesti e i retti avessero saputo mettersi a braccetto e resistere contro il nemico comune! I Pinelli e i Calabresi e i Moro contro i registi della strategia della tensione, contro i bombaroli, contro chi in quel dicembre 1969 aveva tessuto la tela mica contro gli anarchici e il movimento di classe, no, contro tutte le persone perbene. Contro Pinelli e contro Calabresi e contro Moro, tutti insieme e tutti martiri. Chi guidava lo Stato, chi lo difendeva, chi lo combatteva.

Con buona pace di Scalfari, che “c’era” e con sincero rispetto trattasi di una boiata. La storia d’Italia non l’ha scritta nessun burattinaio: l’ha decisa l’esito di uno scontro frontale tra quelle che allora si chiamavano classi, e se oggi la parolaccia pare offensiva si dica pure fasce sociali.

L’ha decisa la vittoria di qualcuno e la sconfitta di qualcun altro. Il Paese in cui viviamo è stato ridisegnato a misura dei vincenti. L’ombra del passato è usata con perizia acciocché i perdenti restino tali il più a lungo possibile, auspicabilmente se per l’eternità .

Checché ne raccontino Giordana e Scalfari, in quello scontro che fu feroce Luigi Calabresi e Aldo Moro stavano da una parte. Noi e Pino Pinelli dall’altra.


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