La “Green Italy” scelta obbligata

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E dunque, se è ancora vero che “il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale”, la questione dell’energia e in particolare delle energie rinnovabili supera la dimensione strettamente economica, perché coinvolge l’ambiente, l’aria che respiriamo, la qualità  della vita e quindi la salute di tutti noi.
In un Paese in cui paghiamo il prezzo della benzina più alto di tutt’Europa, a causa delle accise che risalgono alla guerra di Abissinia (1935), alla crisi di Suez (1956) o al disastro del Vajont (1963); lo stesso Paese in cui gli incentivi statali destinati dal ’92 alla produzione di energia da fonti rinnovabili o “assimilate” sono finiti nelle casse delle aziende che gestiscono inceneritori di rifiuti o impianti a carbone e addirittura nelle tasche dei petrolieri, evidentemente il problema è tutt’altro che economico. Qui si tratta, piuttosto, di politica industriale, ambientale e sanitaria. Ma anche di politica europea, posto che l’Italia s’è impegnata a rispettare il “pacchetto clima-energia” con gli obiettivi fissati dall’Ue per il 2020: e cioè, a ridurre del 20% entro quella data le emissioni di gas serra, a realizzare il 20% di risparmio energetico e infine ad aumentare del 20% la produzione da fonti rinnovabili.
Oggi, rispetto a quest’ultimo traguardo, siamo più o meno a metà  strada, intorno al 10%. Ma molto resta ancora da fare. Eppure, mentre da una parte dobbiamo risparmiare, ridurre gli sprechi e i consumi in nome dell’austerità , e dall’altra dobbiamo cercare di alimentare la ripresa e il lavoro, questo sarebbe proprio il momento più propizio per procedere decisamente sulla via maestra della “Green economy”, ribattezzata ora “Green Italy” dal titolo accattivante di un libro pubblicato recentemente da Ermete Realacci. Una scelta obbligata, non un’alternativa possibile o un optional. 
All’interno dell’economia “verde”, quello dell’energia pulita è uno dei pochi comparti che hanno svolto finora una funzione anticiclica nella congiuntura internazionale, favorendo la nascita di nuove aziende e la creazione di posti di lavoro. È vero che il sistema degli incentivi ha prodotto distorsioni, abusi, speculazioni. Ed è opportuna e necessaria perciò un’equilibrata revisione dell’intera disciplina, soprattutto per quanto riguarda il fotovoltaico. 
Ma sarebbe un doppio delitto, contro l’economia e contro l’ambiente, affossare il settore, privandolo di certezze normative o bloccando il processo in atto. Non a caso, secondo i dati forniti dalla stessa associazione, nel 2010 le fonti alternative ci hanno consentito di risparmiare 61 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, riducendo in proporzione le emissioni di CO2 e quindi l’inquinamento atmosferico.
Sono ormai il 95%, come documenta Legambiente, i Comuni che in rapporto alle caratteristiche naturali del territorio hanno adottato un mix di tutte le fonti rinnovabili in tutt’Italia: da 500 che erano sei anni fa, sono arrivati a 7.986, per un totale di circa 400 mila impianti disseminati nella Penisola. Sta cambiando o è già  cambiata, insomma, la struttura del sistema energetico italiano. Si va verso un modello di autonomia energetica, di produzione sempre più diffusa e distribuita. Un’energia, dunque, anche più democratica.
Mai come in questo campo il valore prioritario dell’Ambiente, fondato sulla cultura del limite, appare a tutti gli effetti il motore e allo stesso tempo il regolatore di uno sviluppo sostenibile. E deve diventare perciò “Politica generale”, come predicò bene Walter Veltroni al suo esordio da segretario del Pd al Lingotto di Torino, salvo poi perdersi in cattivi razzolamenti. Se proprio vogliamo essere più tedeschi dei tedeschi sull’articolo 18 e sui licenziamenti, non si vede perché dovremmo essere meno tedeschi dei tedeschi sulle energie rinnovabili.


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