«Sostiene Pereira», le parabole di un io disseminato

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Nessuno si sarebbe aspettato un gesto del genere da un uomo laconico, schivo e talmente circonfuso di malinconia da far dimenticare agli altri, come probabilmente a se medesimo, di avere pubblicato molti anni prima, oltre ad alcune raccolte poetiche e di critica letteraria, un romanzo neorealista dedicato ai braccianti e ai contadini del nativo Alentejo. 
Quando, al principio del ’94, uscì da Feltrinelli Sostiene Pereira non pochi furono i lettori che nella fisionomia del vecchio redattore lisboano intravidero diversi tratti di quel grande maestro peraltro già  noto al pubblico italiano per Memoriale del convento, edito da Einaudi pochi mesi avanti. Ciò nonostante (il che vuol dire nonostante il fatto che la letteratura di Antonio Tabucchi nasca per programma e come per partenogenesi sul terreno della letteratura, segnatamente quella lusitana), Sostiene Pereira attinge tuttavia uno statuto di realtà  che solo per automatismo percettivo si potrebbe trattare alla stregua di un esercizio postmodernista. 
Se infatti il romanzo si origina da una fitta trama intertestuale (un apposito sito ne censisce in Internet le fonti innumerevoli da Pirandello, Mauriac, Garcà­a Lorca, D’Annunzio, Claudel, Bernanos, fino, ovviamente, al suo Pessoa), qui la procedura oltrepassa e riscatta il pastiche per colmo o, paradossalmente, per eccesso di finzione, quasi che stavolta la letteratura eccedesse se stessa per trovare all’esterno una barra d’appoggio, nel qual caso una mozione etica e un punto di equilibrio politico. Che cos’è in effetti Sostiene Pereira se non un romanzo dell’apprendistato per interposto eroe (l’alter ego,lo scriba clandestino a nome Monteiro Rossi), che cos’è se non il referto di una tardiva iniziazione o, meglio, di una postdatata presa di coscienza politica? 
Entrambi gli schemi si riferiscono a un personaggio singolo ma, per allegoria, si indirizzano tanto al popolo appena uscito dalla glaciazione salazarista quanto a quello che già  viene smemorandosi, in Italia, sotto il duce mediatico. Né si tratta di una parabola lineare se, per restituirne il moto ondulatorio, Tabucchi si appoggia alla intuizione di Binet sulla cosiddetta confederazione delle anime e relativa disseminazione dell’io. Che l’io del malinconico e agnostico Pereira sappia duplicarsi nell’io di uno scrivente democratico (o persino, virtualmente, di un rosso alla José Saramago), chiunque lo comprese all’uscita del romanzo, il quale fu vituperato sui giornali come fosse un coccio del Muro di Berlino ovvero un mite omaggio al Pcus di Leonida Breznev. Qualcosa aveva, evidentemente, saputo trasformare anche un vecchio marginalizzato e in tutto disilluso dalla vita, uno che sempre immaginiamo perso tra la folla del Rossìo o solitario a un tavolo del Caffè «A Brasileira». È scritto nel finale, al cospetto di una imminente, silenziosa, conversione: «Gli venne un’idea folle, ma forse poteva metterla in pratica». 
Quell’uomo non ha alcun bisogno di giurare sulla democrazia o di vagheggiare, tanto meno, una rivoluzione. A lui basta constatare su di sé che gli esseri umani, dopo tutto, non sono immutabili: questo sostiene, mutamente, Pereira.


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