Venezia, i tormenti di una città -vetrina sospesa tra fioritura artistica, spopolamento e casse vuote

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In realtà , Venezia è già  morta, come città . Ed è risorta, come vetrina.
Di giorno Venezia non è affatto tetra, e neppure malinconica. Anzi, non è mai stata così bella, così vivace. Mai arrivati così tanti soldi dal Nord-Est, che qui amano chiamare le Tre Venezie, e da Milano, dall’Europa, dall’America. Soldi privati, però. Di mercanti, non di mecenati. Una fioritura di restauri e fondazioni. Il caso più eclatante è quello di Pinault, che si è preso un pezzo di Venezia — la meravigliosa Punta della Dogana — per esporre gli artisti della sua collezione che poi venderà  nella sua casa d’aste. Ora la polemica infuria sul Fontego dei Tedeschi, comprato dai Benetton, su cui l’archistar olandese Rem Koolhaas ha disegnato una contestata terrazza con vista sul Ponte di Rialto. È anche vero però che dentro Punta della Dogana nessuno metteva piede da decenni. Mentre al Fontego, un tempo affrescato da Giorgione e da Tiziano giovane, rifatto negli Anni 30 e trasformato nelle Poste, si andava al più a pagare le bollette. E con le mega-affissioni sul Ponte dei Sospiri e in San Marco, anche quelle contestate e per giunta orribili, il Comune ci paga il recupero e la manutenzione della basilica, del campanile, di Palazzo Ducale, del Correr…
Di notte, Venezia torna se stessa. Cioè una città  spopolata, come altri centri storici; e Venezia è ormai il centro storico di Mestre. Ma qui, circondati dalla bellezza, è più triste lo spettacolo degli infissi chiusi, delle luci spente, del silenzio, mentre il flusso dei pendolari e dei turisti poveri si sposta verso la terraferma. Restano vivi gli angoli dove si ritrovano gli studenti: Campo santa Margherita, San Giacomo dell’Orio, il mercato di Rialto. I residenti si sono lamentati, e il Comune ha imposto il coprifuoco a mezzanotte. Del resto, se un ragazzo suona i bonghi in Campo de’ Fiori a Roma o al Ticinese a Milano, tutto si perde in mezzo al frastuono. Nel silenzio e nel vuoto di Venezia, pare stia cominciando un attacco di guerrieri zulù. In compenso, per mancanza di vie di fuga, non ci sono rapinatori, da quando hanno preso «Kocis», che scappava col barchino.
Il sindaco filosofo
Racconta Cacciari: «Non si ha idea di cosa ho trovato dentro Punta della Dogana! Topi che scorrazzavano. Impiegati chiusi nei loro ufficetti. Nella torretta che guarda San Marco, forse il posto più bello del mondo, c’era un appartamento abusivo: sì, uno che abitava lì, all’insaputa di tutti. Il giorno in cui devono cominciare i lavori, spunta nei magazzini un deposito di legni vecchi. Dico: toglieteli. Mi rispondono che non si può, è roba della sovrintendenza. Chiamo la sovrintendenza: venite a prenderli. Mi rispondono che non si può, sono i resti di un vecchio solaio. A quel punto ho cominciato a urlare. Una scena isterica. Ho dato di pazzo». Lo stesso accadde a piazzale Roma, dove sorgerà  la nuova cittadella della giustizia, a prezzi triplicati rispetto al preventivo. «E ci credo — dice Cacciari —. Terreni inquinati. Lavori ritardati. Altri fatterelli, tra cui questo. Stanno per partire i lavori, quando viene annunciata una scoperta sensazionale: casse piene di ossa di animali. Dico che la cosa è nota: fino all’800 lì c’erano i macelli. Mi rispondono che la cosa è clamorosa, si può ricostruire tutta la catena alimentare di Venezia nel XVIII secolo. Vado, e mi mostrano un osso di capra, di vitello, di bue… Ho cominciato di nuovo a urlare. Un’altra scena isterica. Ho dato un’altra volta di pazzo: “Se non partono subito i lavori, prendo una mazza e distruggo le ossa una a una!”».
Racconta Cacciari di non sopportare più «il piagnisteo stucchevole» su Venezia, il lamento che sale «dagli sciagurati salotti» e da un popolo avvezzo a mugugnare. Ricorda quanto è stato fatto in questi vent’anni: il nuovo Arsenale, con il centro di ricerca Thetis; la ricostruzione della Fenice, per quanto tormentata; il restauro di Ca’ Giustinian, sede della Biennale, su cui avevano messo gli occhi i Benetton che già  possiedono l’isolato a fianco; il recupero della Certosa, l’isola dove si esercitavano i lagunari e dove adesso ci sono un parco, un centro per riparare le barche, un porto turistico. E poi gli investimenti delle banche e dei privati, il rilancio della Fondazione Cini, lo sbarco di Prada a Ca’ Corner della Regina, la Querini Stampalia, la Bevilacqua La Masa, i musei civici affidati a Gabriella Belli, il raddoppio dell’Accademia; oltre ovviamente a Pinault, che ora si è impegnato a recuperare il teatro di Palazzo Grassi (ad oggi però deserto di mostre).
Il problema è che il Comune non ha più un euro. Si sono inaridite le due fonti storiche, entrambe affidate all’alea, alla sorte: la legge speciale, e il casinò. Venezia da sempre è un’enclave in un Nord-Est distante e ostile: è di sinistra in un mare destrorso; in Confindustria ha Eni, Enel, Telecom, Finmeccanica, giganti lontani e distratti, non piccoli imprenditori legati al territorio; è assistita e succhia(va) soldi da Roma, anziché versarne. Ora lo Stato paga meno, e finisce tutto al Mose: la più grande opera d’ingegneria idraulica al mondo; già  inghiottiti 5 miliardi di euro, e mancano ancora due anni di lavori. Poi ci sarà  da pagare la manutenzione delle gigantesche dighe mobili che custodiranno le tre bocche di porto, da cui entrano in laguna le barche e le maree.
La città  è scettica. Arrigo Cipriani, per esempio: ottant’anni ad aprile, due ristoranti a Londra, sette a Manhattan; il simbolo dell’ospitalità  veneziana. Nel vecchio magazzino di cordame divenuto l’Harry’s Bar, una sera ha avuto a cena quattro re a quattro tavoli diversi. Però condivide il giudizio di Cacciari sugli aristocratici ansiosi di salvare Venezia. Dice Cipriani che tutto cominciò dall’alluvione del 1966: «La città  rimase sommersa per meno di 24 ore, il giorno dopo l’Harry’s Bar era aperto, i danni li fecero soprattutto i motoscafi che sfrecciavano per divertimento. Venezia convive con l’acqua fin dalla nascita: è come un corpo umano, con la circolazione arteriosa e quella venosa; l’acqua entra, pulisce, fuoriesce. Il Mose ferma le maree di un metro e 20; ma piazza San Marco è a 90 centimetri sul livello del mare, sarebbe sommersa lo stesso. E poi quest’anno l’acqua alta non si è ancora vista…».
L’altra cassaforte del Comune è il casinò, che un tempo ospitava gli smoking bianchi dei giocatori di chemin de fer al Lido, e oggi vive di cinesi che giocano alle slot machine in terraferma, a Ca’ Noghera. Tra la crisi e la concorrenza dello Stato con le slot on line, l’incasso è sceso da 200 milioni l’anno a 145. Siccome cento se ne vanno per i costi fissi, i proventi del Comune sono crollati. Il nuovo sindaco vorrebbe privatizzare la gestione, ma i croupier non ne vogliono sapere di lavorare sotto padrone e hanno fatto sei giorni di sciopero (per non essere da meno, i gondolieri hanno ottenuto dalla giunta lo status di lavoro usurante, come i minatori, i palombari, gli operai delle cave e dell’amianto).
Il sindaco orologiaio
Il nuovo sindaco — Giorgio Orsoni, 66 anni — è un personaggio interessante. Certo, non ha il carisma del predecessore. («Cossa xé ‘sto carisma?» chiedeva l’altro giorno in vaporetto un pensionato a un amico, parlando di Cacciari. Risposta: «Vol dir che no ti pol dirghe niente». «Vorria averlo anca mi». E l’altro, con aria di mistero: «Xé dificilisimo!»). Venezia nel ‘900 è vissuta su coppie di carismatici: al tempo del fascismo, Cini e Volpi; nel dopoguerra, Feliciano Benvenuti e Bruno Visentini; fino a poco fa, Cacciari e il patriarca Angelo Scola. La città  ha il gusto per le cariche dal suono arcaico: patriarca, procuratore di San Marco, magistrato alle acque, ammiraglio dell’Arsenale, che per beffa del destino è un genovese. Genovese è pure l’erede di Scola, Francesco Moraglia, che si è insediato ieri.
Il primo procuratore di San Marco è anche sindaco. Eletto dalla sinistra anche se votava liberale. Più che un amministratore, Orsoni è un amministrativista. Più che un politico, ricorda un orologiaio: ha il gusto minuzioso di smontare i problemi, analizzarli in ogni ingranaggio e cercare di aggiustarli. L’hanno definito “il doge di Benettown”, ma il primo progetto della terrazza sul Fontego è stato bocciato e ora un’occhiuta commissione sta esaminando il secondo. Però i problemi non finiscono mai. Al Lido scavando le fondamenta del nuovo Palazzo del Cinema hanno trovato l’amianto, e si sono fermati. Il ponte di Calatrava pare maledetto: la Corte dei conti chiede i soldi indietro all’architetto e ai tecnici del Comune, l’arco è troppo ribassato per cui si sta già  allargando alle basi, là  dove sono in agguato gli zingari che si offrono ruvidamente di portare la valigia ai turisti insospettiti. Poi ci sono le navi da crociera, che dappertutto si sono allontanate dalla riva, tranne qui. Dice il sindaco che il bacino di San Marco è un passaggio obbligato, però dovrebbe diventare Ztl: almeno il Comune ne guadagnerebbe qualcosa. Ma le vere questioni epocali sono due. Lo spopolamento della Venezia storica. E il destino della più grande area industriale d’Europa, Marghera.
Il sindaco di Mestre
Il display della farmacia Morelli di campo San Bartolomeo, vedetta della grande fuga, indica che sono rimasti 58.855 residenti. Orsoni dice che se si aggiungono 20 mila studenti, 20 mila pendolari, altri 20 mila che vivono a Venezia pur non avendo la residenza, gli abitanti delle isole e la quota giornaliera dei 22 milioni di turisti che ogni anno passano in città , si arriva a 200 mila: la popolazione che da sempre la laguna può contenere. Sarà . Anche il sindaco però deve riconoscere che il silenzio notturno, le finestre sbarrate, i palazzi fatiscenti accanto a quelli recuperati dai miliardari danno un’immagine di città  morta che contrasta con la vivacità  diurna. Il giovedì sera, poi, giorno di chiusura del “Giorgione”, non c’è neppure un cinema (ora dovrebbero aprirne un altro vicino al teatro Goldoni).
Il punto è che i veneziani non vogliono più vivere a Venezia, e non solo perché le case ai piani alti sono carissime e quelle umide a livello dell’acqua o surriscaldate sotto i tetti non le prende nessuno. I veneziani vogliono — proprio come tutti noi — la macchina sotto casa. Il Comune ha seimila appartamenti, molti affittati ai popolani, come la mitica Lucia Massarotto: sfrattata dalla Riva dei sette martiri dove sventolava il tricolore in faccia ai leghisti, ha trovato casa a Santa Croce. È la classe media a mancare, sono i borghesi che abitavano i piani tra quello nobile e le mansarde, come racconta il conte Ranieri Da Mosto, discendente di Alvise — navigatore, scopritore delle isole di Capo Verde — e superstite della Venezia aristocratica, rintanato nel palazzo settecentesco vicino alla chiesa di San Pantalon.
Il campanile di San Pantalon è tra quelli che perdono pietre e sono sorvegliati dalla Sovrintendenza: San Marco, Torcello, Burano, Frari, Santo Stefano. Il parroco, don Marco Scarpa, ha un’altra chiesa in restauro, i Tolentini, e lancia un appello: «Cerco sponsor. Sono disposto a mettere affissioni». Certo è triste vedere il marchio dell’Hard Rock Café proiettato sul campanile di San Marco la notte di Carnevale, o trovare la Scuola Grande di San Rocco chiusa per un “evento” di una carta di credito. Però la manutenzione del complesso cui Tintoretto lavorò per oltre vent’anni, ritraendosi tra i soldati romani mentre osserva angosciato la Crocefissione, costa. Tele, marmi, legni, e il tesoro: il pollice di San Pietro, l’indice di sant’Andrea, una vertebra di san Rocco, un frammento della corona di spine. Forse il posto più bello del mondo. Con appena 120 mila visitatori l’anno. Su 200 turisti che sbarcano a Venezia, 199 non vanno a vedere la spirale di angeli che entra nella capanna di Maria con un vortice che ricorda la velocità  astratta di Balla, e poi l’Annunciazione di Tiziano, il Cristo portacroce di Giorgione… Forse non ha torto Cipriani, quando dice che la gran parte non sono turisti, ma curiosi.
Figurarsi Mestre. La città  più brutta d’Italia, almeno sino a poco fa. Ora hanno pedonalizzato piazza Ferretto, piantato boschi in periferia, trasformato la discarica di San Giuliano in parco, fatto arrivare la banda larga, progettato l’M9, il museo del futuro. Certo, neppure il gran lavoro di Gianfranco Bettin, lo scrittore che prima come prosindaco ora come assessore se ne occupa da vent’anni, potrà  mai fare di Mestre un bel posto. Può evitare il peggio, come Bettin ha fatto con i centri sociali, a cominciare dal Rivolta di Luca Casarini, dove sono nate le Tute Bianche e ora si insegna l’italiano agli extracomunitari. All’ingresso sventola il leone di San Marco, però incappucciato tipo subcomandante Marcos.
Bettin dice le stesse cose di Andrea Tomat, presidente di Confindustria Veneto: Marghera deve restare un insediamento industriale. Le infrastrutture ora ci sono: il benedetto Passante, la crescita dell’aeroporto e del porto fanno di Mestre il centro del Nord-Est. Se le sorti del petrolchimico sono segnate, si punta sul rilancio del Vega, il centro di ricerca delle nanotecnologie, dove si progettano idee; ora servirebbero tutte attorno le industrie che le realizzino. Pierre Cardin, che in realtà  si chiama Pietro Cardin ed è nato a Sant’Andrea di Barbarana (Treviso), prima di morire vorrebbe erigere qui a Marghera la “Tour Lumière”, un palazzo da un miliardo e mezzo di euro e 254 piani, per ospitare l’università  della moda. Il sindaco non dice no. Il presidente della Regione è entusiasta. Forse perché pure Luca Zaia viene dalla Marca Trevigiana, e ha per Venezia lo stesso sentimento di estraneità  e di meraviglia che avevano i suoi genitori, venuti qui per la prima e ultima volta in viaggio di nozze nel 1966, e tornati al paese con la convinzione che il posto più bello del mondo fosse la basilica di San Marco.
Per concordare basta scoprire la formella della fiancata Nord, studiata dalla grecista Monica Centanni, che raffigura il volo di Alessandro Magno: i bizantini pensavano che, conquistato il mondo, Alessandro fosse sceso negli abissi con un sommergibile trasparente, poi avesse aggiogato al suo carro due ippogrifi e impugnando due lepri come esche fosse asceso al cielo; sino a quando un angelo non gli sbarrò il cammino. Oppure basta ammirare la cupola della Creazione, appena restaurata dalla Venice Foundation, la Genesi degli analfabeti, dove Dio mette la mano di Adamo sulla testa del leone a indicare la primazia dell’uomo sugli animali; lo stesso leone che nel mosaico accanto esce dall’arca di Noè e dopo mesi di inerzia si stira le zampe prima di allungarsi nella corsa. Dovrebbe accadere lo stesso a Venezia: riprendere a correre, nonostante il peso di un compito così gravoso, custodire tanta bellezza e farle rinascere attorno una città .


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