Cinovesuviano o afropugliese È il pomodoro globalizzato

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La storia di quel pomodoro inizia molto probabilmente nei campi del foggiano, tra le distese di filari della Capitanata. Da qui proviene la maggior parte del pomodoro italiano. Quasi tutto finirà  nelle industrie di trasformazione del salernitano e del casertano. I camion campani conoscono a memoria le strade che portano agli impianti, oltre 50 industrie per la storica divisione del lavoro tra le regioni: la Puglia produce, la Campania inscatola e rivende. Proprio una di queste ditte confeziona il pelato “Scugnizzi”. «Abbiamo numerosi clienti esteri», ci dicono in azienda. «In particolare, un grosso esportatore inglese. È verosimile che abbia acquistato i pelati e poi li abbia rivenduti a un suo cliente italiano». Che a sua volta lo rivende a un grossista, nel caso specifico una ditta di Acilia. I commercianti quindi lo propongono ai negozi etnici e un acquirente asiatico ne acquista un cartone. Ecco che il pelato torna in Italia, al prezzo di 80 centesimi per 400 grammi. «Nei supermercati di Salerno si trova a circa 30 centesimi», ci spiega Anselmo Botte, sindacalista che conosce molto bene la filiera del pomodoro campano. Il giro d’Europa aumenterebbe il prezzo solo di qualche centesimo. «La dicitura “Importe d’Italie” non certifica il passaggio alla frontiera», ci dice il responsabile comunicazione dell’Agenzia delle Dogane. «Ma se è andato in Inghilterra non c’è barriera, è comunque territorio comunitario». Tutto dunque legale e regolare. Non è stata violata nessuna legge, se non quella della logica. Mentre i pomodori possono circolare liberamente, gli uomini che li raccolgono no. Sono tutti migranti, condannati a essere invisibili e ricattabili. Spesso senza permesso di soggiorno o col documento in scadenza, anche se tutti sanno che senza di loro i pomodori marcirebbero nei campi e un pezzo della nostra economia andrebbe in fumo. Sono africani e dell’Est Europa. Hanno solo 60 giorni a disposizione, i più caldi dell’anno, per raccogliere gli ortaggi e caricarli nei cassoni. Il cottimo è la norma. Se riempi un cassone da tre quintali ti danno tre euro. Anche le donne – bulgare e rumene – scuotono le piante sotto lo sguardo del caporale che prende soldi comunque: per aver formato le squadre, per il passaggio col furgone, per una bottiglia d’acqua o un panino. Lo scorso agosto uno studente di ingegneria del Politecnico di Torino arrivava fino in Puglia per mettere su qualche soldo e pagarsi le tasse di iscrizione. Nato a Yaoundé, Camerun, aveva deciso di provare con la raccolta in Puglia. Ma quando i caporali gli hanno chiesto di continuare oltre l’orario, Yvan Sagnet dava il via al primo sciopero dei braccianti stranieri mai visto in Italia. Una lotta che evidenziava ancora una volta le terribili condizioni in cui vivono i migranti impegnati in agricoltura. Tra Foggia e la Basilicata vivono in quelli che loro stessi chiamano «ghetti». Boreano, Palazzo, Borgo Mezzanone, Rignano Scalo. Casolari diroccati in mezzo a immense distese di filari, sotto il sole cocente. Tendopoli improvvisate in mezzo ai ruderi. Villaggi fantasma dell’epoca delle riforme agrarie riadattate ad abitazioni. Ma anche un paio di coperte sotto un albero e qualche cartone. Sono le case dei lavoratori stranieri, molti dei quali sudanesi ed etiopi, titolari di protezione umanitaria che dovrebbero vivere in ben altre condizioni. I lavoratori africani non sanno che stanno raccogliendo anche il pomodoro che mangeranno i propri connazionali. Il pomodoro da industria si divide in pelati e doppio concentrato. I primi, di maggiore qualità , sono destinati per il 70% al mercato europeo. La seconda tipologia finisce invece, per il 55%, in Africa. La Nigeria ne assorbe il 12%, la Liberia il 10%, il Ghana il 7%. I due continenti si scambiano merci e braccia. Un tempo il Ghana produceva ed esportava pomodori, oggi è costretto a comprarli dall’Italia. I nostri prodotti godono dei sussidi dell’Unione europea e costano cinque volte meno dei pelati africani. Così il nostro pomodoro butta sul lastrico migliaia di contadini ghanesi, costretti all’emigrazione e a raccogliere i prodotti dei nostri campi. Si crea così un circolo vizioso senza uscita. Con i pelati confezionati nel napoletano si preparano le zuppe nigeriane a base di spezie e carne di capra, così come quella apprezzata ad Accra, capitale del Ghana, a base di burro di arachidi, cipolle e pesce. Negli african market è facile trovare il cilindro di metallo con riproduzioni del Vesuvio, la dicitura “Product of Italy” e un’etichetta del tipo “Ciro”. In una città  africana, il barattolo di concentrato può costare l’equivalente di 10 centesimi di euro, ovvero cinque volte meno dei pomodori locali. «Un prezzo decisamente anomalo per un prodotto importato da un paese lontano, dove per giunta viene venduto a cifre ben più alte», denuncia l’Ong Volontari per lo sviluppo, che riporta anche la testimonianza di un contadino del Ghana: «I nostri pomodori non hanno mercato. Mentre i prodotti italiani si trovano ovunque». Perché? La risposta sta nei sussidi che l’Unione Europea ha elargito per promuovere la sua industria agro-alimentare. Si tratta di cifre enormi (370 milioni di euro l’anno solo per le aziende che trattano pomodori, almeno fino al 2010), che nessun paese africano può permettersi. Il Ghana è il massimo importatore di concentrato di pomodoro dall’Europa (con oltre 10 mila tonnellate l’anno) e l’80% dei pelati venduti in questo Paese vengono prodotti in Italia. Il resto è “Tomato fun” cinese e qualche prodotto turco. Nel 2009, l’Italia ha esportato 206 mila tonnellate di doppio concentrato, incassando 240 milioni di euro. Nonostante la crisi, siamo ancora il sesto produttore mondiale di pomodoro, dietro Cina, Stati Uniti, Turchia, India ed Egitto. Per capire l’importanza del pomodoro da industria nell’economia italiana, basta pensare che apportiamo il 50% della produzione Ue, che nel complesso è di 11 milioni di tonnellate e che sono pagate ai produttori a una media di 76 euro per tonnellata. Ma ora il grande spauracchio è la Cina, con 8 milioni di tonnellate prodotte a un prezzo bassissimo, 39 euro a tonnellata (dati Ismea 2009). Tutti hanno paura del concentrato cinese. Già  nel 2007, l’Italia ne importava 140 mila tonnellate, con un aumento del 138%. Un’azienda che voglia mescolare il proprio prodotto con quello cinese può farlo anche via Internet. Basta andare su alibaba.com , un portale di global trading, e cercare «italian tomato». Si trovano 161 produttori asiatici pronti a spedire a un prezzo stracciato. L’acquisto è facile come quello su eBay. Pochi secondi per ottenere la password e si apre la chat in tempo reale col commerciante dall’altro capo del mondo. Unico vincolo, l’ordine minimo da 18 tonnellate.


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