Andalusia, nella roccaforte socialista dove la destra tenta l’ultimo assalto

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SIVIGLIA – Fa un certo effetto vedere Alfonso Guerra, settantadue anni, ex vice presidente del Felipe nazionale e dei governi socialisti che trascinarono la Spagna uscita dal franchismo nella modernità  e in Europa, quel Guerra che i giornali chiamavano il “viceré” dell’Andalusia, davanti ad una platea di un centinaio di pensionati e qualche giovanotto nei giardini della Buhaira a ridosso del centro vecchio di Siviglia. Lui e Gonzà lez, la vecchia guardia del partito socialista, sono tornati in campo per difendere la loro storia e quest’ultima frontiera: l’Andalusia che domani vota per eleggere governatore e parlamento autonomo regionale. La posta in gioco è altissima e il risultato oscilla, secondo i sondaggi, fra una molto probabile maggioranza assoluta dei popolari di Mariano Rajoy – che vincendo in Andalusia estenderebbe su tutta la Spagna la “marea blu” del 20 novembre scorso – e un molto meno probabile governo di coalizione fra i socialisti e la Izquierda Unida.
Ultima roccaforte socialista a cadere o primo baluardo della resistenza alla nuova egemonia conservatrice: è per questo che il voto di domani nella regione più popolata di Spagna, patria di tori e prosciutto, terra di braccianti e culla della sinistra iberica, ha assunto un rilievo nazionale.
Peccato che il Psoe – che governa questa regione da sempre, da trent’anni, dalle prime elezioni regionali – arrivi all’appuntamento nel momento peggiore. «C’è un senso di esaurimento del modello, di incapacità  di proporre nuove leadership e di stanchezza verso una classe politica corrotta», dice Francisco Garrido, socialista e docente di filosofia. «Anche qui – aggiunge – non saranno i popolari a vincere ma i socialisti a perdere per quelle migliaia di ex elettori di sinistra che si asterranno stufi di ingoiare scelte politiche sbagliate». C’è di più: né Guerra, né Gonzà lez, né Rubalcaba, il segretario nazionale socialista che è sceso a sud a difendere il bastione, amano Grià±an, il loro candidato in corsa quaggiù. Scelto in un compromesso tra dirigenti locali e imbrattato dagli scandali dell’amministrazione. Il più importante dei quali è quello dei fondi per la cassa integrazione dei contadini stagionali stornati come finanziamento illecito al partito. Non solo. Contro il Psoe c’è rabbia per il numero di disoccupati più alto del paese (30%) e dalle amministrative del maggio 2011 i popolari già  hanno i sindaci di tutte le otto maggiori città  andaluse. Hanno conquistato le classi urbane più attive sfruttandone la stanchezza verso un potere clientelare e usurato.
L’unica incognita sull’esito di domani è quello che qui chiamano “il voto della paura”. Ossia l’effetto dei primi cento giorni di Rajoy, dell’aumento delle tasse, della riforma del lavoro (molto più drastica di quella proposta in Italia). E di ciò che si minaccia: le centinaia di funzionari regionali che rischiano di perdere il posto per il deficit delle amministrazioni locali; la sanità  e l’istruzione – due gioielli dei socialisti andalusi – che rischiano l’asfissia per mancanza di investimenti. La paura, sperano i socialisti, potrebbe fermare la macchina elettorale del Pp lanciata verso la maggioranza assoluta orientando la scelta degli indecisi e riportando alle urne migliaia di elettori che a novembre si sono astenuti per punire gli errori di Zapatero. L’altro tema, quello vero e ideologico del programma dei Popolari, che spinge verso una nuova centralizzazione contro lo Stato federale creato con il ritorno della democrazia, resta ai margini. Incompreso, per ora. L’obiettivo finale di Rajoy è una secolare ossessione della destra spagnola a favore del centralismo di Madrid e della Castiglia contro tutte le autonomie e le culture diverse di questo paese. Se domenica vince, svuotare di contenuti uno Stato federalista che con la crisi diventa sempre più insostenibile economicamente, sarà  molto più facile.


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