Rinviate le norme sui dipendenti statali
ROMA — Nel testo della riforma del mercato del lavoro approvato ieri, il Consiglio dei ministri ha dovuto fare riferimento al convitato di pietra degli ultimi giorni di serrata trattativa sulla modifica dell’articolo 18, cioè le conseguenze sui dipendenti statali: «Con riguardo al settore del lavoro pubblico», si legge, «eventuali adeguamenti alle disposizioni del presente intervento saranno demandati a successive fasi di confronto». Si rinvia dunque la materia ad un altro tavolo di trattativa, quello tra il ministro Patroni Griffi e i sindacati del pubblico impiego che in realtà è già stato aperto a gennaio, finalizzato alla stipula di un «protocollo sul lavoro pubblico» e di cui si è parlato proprio la scorsa settimana in un incontro a cui hanno preso parte sindacati, Regioni, Upi e Anci.
In quella sede, il ministro aveva parlato di un documento di «prospettiva» che tenesse conto delle criticità del momento, ma anche dei cambiamenti necessari. Ma dopo l’ondata di critiche su una possibile «esenzione» degli statali, i dubbi di costituzionalità e il rischio di compromettere la base giuridica della riforma, il Consiglio dei ministri ha dovuto annunciare subito che si studierà il problema dell’estensione ai pubblici dipendenti delle nuove norme sui licenziamenti individuali economici (che non era neppure sul tappeto fino a pochi giorni fa). «Affrontiamo tutto. Vedremo quali sono i vincoli che abbiamo, dopo di che cerchiamo di avere la maggiore convergenza possibile compatibilmente anche con i vincoli costituzionali che abbiamo». Così Patroni Griffi ha risposto sull’articolo 18 per gli statali.
Il licenziamento individuale di uno statale (che non sia per giusta causa o giustificato motivo o un licenziamento disciplinare) è previsto in realtà dal novembre dell’anno scorso, quando fu approvata la legge di stabilità , ultimo atto del governo Berlusconi. Nel senso che il dipendente pubblico che per tre volte rifiuta il trasferimento che gli è stato comunicato per motivate esigenze di servizio, dopo aver subito per due volte la sanzione della decurtazione dello stipendio, la terza volta può essere licenziato. È a questa nuova norma che forse si riferiva il leader della Cisl Andrea Bonanni quando ha detto che la questione dell’art. 18 è «fumo» e propaganda «elettorale» e che la legge per gli statali è molto severa. Essa però non è stata ancora mai applicata (non c’è alcuna statistica al riguardo), anche considerando che sono passati poco più di tre mesi dall’approvazione. Ma al di là della concreta applicazione, questo tipo di licenziamento è legato al rifiuto della mobilità , ha carattere sanzionatorio, e quindi in qualche modo assimilabile a quello disciplinare introdotto per gli statali nel 2009. Insomma, niente a che fare con il nuovo tipo di licenziamenti previsti dal testo di riforma dell’articolo 18 per i dipendenti privati, che possono essere «espulsi» al ritmo di 4 ogni 120 giorni «per motivi economici», senza che venga proposta loro alcuna alternativa occupazionale. È per questo che se la riforma non si dovesse applicare agli statali difficilmente potrebbe sfuggire ad una contestazione di illegittimità costituzionale, per palese violazione del principio di uguaglianza tra i cittadini. Quanto alla invocata specificità del lavoro pubblico, essa ormai è quasi azzerata. Il Testo Unico del 2001 afferma che il rapporto di lavoro pubblico (ad eccezione di magistrati, prefetti, corpo diplomatico, forze di polizia) è regolato dal codice civile ed è equiparato al regime del lavoro subordinato dell’impresa (comma 2, art.2).
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