Se l’umanesimo italiano fosse suddito dell’inglese

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È noto quanto sia scarsa in Italia la conoscenza delle lingue straniere. Basta sentire gli annunzi fatti nelle stazioni e all’interno dei treni o dei mezzi pubblici, per essere presi dallo sconforto. Il principale cambiamento intervenuto negli ultimi anni sta nel fatto che prima erano tre o quattro le lingue storpiate, ora è una sola, l’inglese. Insomma, un’unificazione linguistica sulla base dell’ignoranza. Perciò non si può apprendere se non con piacere che in qualche facoltà  universitaria si faccia già  lezione direttamente in inglese, almeno per certi corsi. Questa iniziativa sta diffondendosi, anche in vista di due obiettivi: facilitare gli studenti stranieri e migliorare la conoscenza dell’inglese presso quelli italiani. Si parlerà  subito di «eccellenza», anche se sarebbe opportuno fornire parametri per usare quell’attributo. La minaccia della pubblicità  incombe sempre.
Sarebbe però interessante un’analisi delle modalità  di comunicazione adottate dai docenti e sui loro risultati didattici. Distinguendo, ciò che a quanto pare nemmeno i responsabili attuali dell’istruzione universitaria fanno, tra enunciati di quasi totale traducibilità  (quelli delle scienze «dure») e i più complessi enunciati di ambito umanistico. Molte ricerche fatte su studenti dei corsi superiori, o persino di quelli universitari, danno risposte tragiche sulla loro (in)capacità  di assimilare un testo (italiano) e di riassumerlo. Quando entra in gioco una lingua diversa da quella materna, cosa cambia in questo esercizio di analisi e di sintesi? Sarebbe bello se queste capacità  si affinassero con il ricorso a una lingua straniera: brutti riassunti in italiano, migliori in inglese. Ma, come si vede, siamo sul filo del paradosso. Ci allontaniamo dai paradossi interrogandoci, piuttosto, sul tipo di operazioni attuate dai docenti e dagli studenti al momento di far ricorso a una lingua straniera. Si tratta sempre di traduzioni. Il docente, se italiano, traduce ciò che dice in inglese, e lo studente ritraduce mentalmente dall’inglese all’italiano. In una successiva fase, auspicabile, docente e studente penseranno già  in inglese, e il tramite della traduzione sarà  evitato.
Il riferimento alla traduzione è comunque molto istruttivo. Chi traduce, si pensa comunemente, sostituisce a parole di una lingua parole di un’altra; esercizio che un giorno potrebbe essere demandato a «macchine per tradurre». Però si è subito constatato che le cose non stanno così, e anzi la traduzione è una delle attività  mentali più ardue ed esigenti. S’è persino introdotto il termine «traduttologia», di cui non mi prendo la responsabilità . In sostanza, non si traduce da parola a parola, ma da unità  discorsive a unità  discorsive: diciamo da frase a frase. E, guardando ancora più dall’alto, si traduce da una cultura a un’altra cultura. Ogni lingua porta in sé le tracce della sua storia, della sua sensibilità  giuridica, del pensiero filosofico e religioso. Passare da una lingua a un’altra significa mettere puntualmente a confronto il modo di esprimersi di due culture, e il traduttore dev’essere in grado di farlo. Prendete qualche opera italiana, tedesca e francese in cui si parli di culturaKulturciviltà civilisation, eccetera. Solo con l’aiuto di un linguista come Benveniste si è fatto ordine sullo sviluppo e il significato preciso secondo le epoche, e soprattutto i Paesi, di queste parole apparentemente sinonimiche. Non è che qualcuna delle lingue prese in esame abbia a disposizione parole che un’altra ignora, o viceversa. È che lo sviluppo del pensiero ha portato ogni lingua a esprimere in modo diverso dalle altre i suoi riferimenti all’insieme del sapere. Nozioni, queste, preziose in un momento in cui si cerca di assimilare, tramite le lingue, una piena conoscenza dei Paesi con cui ci rapportiamo. E si noti che in questa prospettiva tutte le lingue vanno considerate, dato che la priorità  dell’inglese ha soltanto una validità  pratica.
Nella furia di pretesa innovazione che sta strozzando il sapere umanistico, viene il timore che non si sappia distinguere fra la traduzione utilitaria, informativa, descrittiva, utile appunto a scopi pratici, e quella ad alta definizione, indispensabile per qualunque approfondimento di ordine culturale e storico-linguistico. Questo possibile errore di prospettiva significherebbe il sacrificio di qualunque ricerca umanistica progredita, e renderebbe l’uso dell’inglese un’esibizione di facciata. Realizzando un altro paradosso: concentriamo i nostri sforzi là  dove la nostra soggezione verso l’estero è conseguenza inevitabile di un’inferiorità  economica difficile da colmare; ci condanniamo invece a una sudditanza insensata in ambiti, come la ricerca umanistica, dove l’Europa, ma soprattutto l’Italia, godono di una riconosciuta superiorità . Pessimi esportatori, tra l’altro.


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