Il Brasile a caccia di cervelli
New York – Nei prossimi otto anni il Brasile avrà bisogno di un milione e centomila ingegneri, più del doppio di quanti riesce a formarne nelle sue università . La presidente Dilma Rousseff ha appena lanciato un programma speciale, Scienze senza Frontiere, per finanziare gli studi post-laurea all’estero di centomila giovani brasiliani, ma non basta a colmare il “deficit di cervelli”. Il piano Scienze senza Frontiere la dice lunga su quanto questo Brasile sia sicuro di sé. La Rousseff non teme che quei giovani connazionali possano rimanere all’estero: dove troverebbero le opportunità che gli fornisce il loro paese? Se ne sono accorti anche i giovani europei. Per i nostri neolaureati dei Politecnici di Milano Torino e Genova, le città di Rio de Janeiro e San Paolo tornano a essere la terra promessa, proprio come ai tempi dei loro bisnonni. Il flusso di questa emigrazione alla rovescia, dall’eurozona ex-ricca verso il gigante dell’America latina, sta diventando massiccio. È un’emigrazione qualificata, e tra i primi a trarne beneficio sono i giovani laureati spagnoli e portoghesi; non a caso, due dei paesi stremati dalla recessione dell’eurozona. Dalla Spagna in particolare fuggono gli architetti: formati nell’epoca del boom immobiliare iberico, troppi di loro sono disoccupati o lavorano gratis negli studi professionali che li sfruttano in un precariato senza sbocchi. Il Brasile offre molto di più. Tra i Mondiali di calcio del 2014, le Olimpiadi del 2016, nonché le imponenti scoperte di giacimenti petroliferi offshore, le grandi opere infrastrutturali sono in costante aumento. Per gli esperti di trivellazioni petrolifere sottomarine, o di costruzioni stradali, o di centrali elettriche, è una Bengodi dove c’è posto per tutti. La potenza emergente del Sud dovrà investire in infrastrutture 500 miliardi di dollari solo in questo biennio: è più del doppio dell’intero Pil del Portogallo. E non a caso dal Portogallo l’emigrazione qualificata ha assunto le dimensioni di un esodo di massa: sono già partiti in centomila, dall’inizio della crisi. La Spagna censisce 55.600 uscite verso l’emigrazione in soli nove mesi. Il Brasile non si accontenta di essere il magnete dell’immigrazione di talenti dall’emisfero settentrionale, sta anche facendo rientrare i propri emigrati. Ancora due anni fa il totale dei brasiliani residenti all’estero raggiungeva tre milioni; oggi si stima che quasi la metà siano tornati. Per forza: con un mercato del lavoro che “tira” come quello attuale, una segretaria bilingue che parli perfettamente portoghese e inglese può guadagnare quello che fino a dieci anni fa era lo stipendio del suo capo.
La “febbre del Brasile” non sembra avere risentito finora del rallentamento della crescita economica. Eppure il gigante sudamericano ha frenato bruscamente la sua corsa. Nel 2010 la crescita del Pil era stata del 7,5% collocando la performance brasiliana subito dietro Cina e India. L’anno scorso il ritmo della crescita si è ridotto a poco più di un terzo: +2,7% è stato l’aumento del Pil nel 2011, un risultato decente se fosse accaduto negli Stati Uniti e addirittura fantastico per l’Europa, ma mediocre per un’economia emergente. A provocare la frenata sono stati gli effetti collaterali del boom: troppo “denaro caldo” dall’estero, tanto che il Banco Itaù in Borsa ha superato la capitalizzazione cumulata di due colossi di Wall Street come Goldman Sachs e Morgan Stanley. Gli investimenti speculativi hanno fatto sopravvalutare la moneta e così hanno penalizzato le esportazioni industriali. Il Brasile, contrariamente agli stereotipi più diffusi, non vive solo di export agricolo e di materie prime, ha un settore manifatturiero importante, che non può reggere a lungo una moneta troppo cara. Dall’inizio dell’anno Dilma Rousseff ha reagito con una robusta dose di protezionismo, e una politica monetaria volta a indebolire il real. Le previsioni ora indicano una leggera ripresa e molti economisti stimano che la crescita del 2012 sarà del 3,5%.
Le difficoltà degli ultimi mesi non hanno ancora raffreddato il mercato del lavoro, dove il tasso di disoccupazione al 4,7% resta meno della metà di quello europeo. La presidente Rousseff ha dovuto incaricare una task force di varare corsie preferenziali per i rilasci di visti di lavoro agli stranieri qualificati. La missione è affidata all’economista Ricardo Paes de Barros, presso la Segreteria Affari Strategici della presidenza. «Il Brasile oggi è un’oasi di prosperità rispetto alla recessione europea, molti talenti vogliono venire, c’è interesse presso la manodopera qualificata, e abbiamo già concesso permessi al ritmo di 51.353 in nove mesi, un aumento del 32% rispetto all’anno precedente», spiega l’economista. I primi destinatari di queste Green Card brasiliane, permessi di residenza per chi si trasferisce a lavorare nei mestieri di punta, sono proprio i laureati europei. Dalla Spagna e dal Portogallo gli arrivi stanno crescendo del 45% all’anno: evidentemente non importa che il Brasile rallenti, perché i paesi più deboli dell’eurozona in confronto stanno in condizioni molto peggiori. Alcune multinazionali brasiliane, per velocizzare le procedure sui visti in ingresso, hanno perfino aperto degli uffici di reclutamento a Madrid e Lisbona, vanno ad assumere i giovani professionisti direttamente nei luoghi d’origine.
Questa “fuga verso i mari del Sud” provoca curiosità e scatena commenti da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Spagna e Portogallo vivono per la prima volta da molti secoli una situazione di questo tipo, in cui le ex-colonie diventano il porto d’approdo per chi fugge dalla mancanza di speranze nel proprio paese. I brasiliani osservano con un misto di curiosità , divertimento e rivincita. Matias Spektor, studioso della Fondazione Getulio Vargas (uno dei più autorevoli think tank brasiliani) ha notato una curiosa analogia con il passato del suo paese: «Quando sono stato a New York, e ho visto il movimento Occupy Wall Street a Zuccotti Park, mi è parso di rivivere la stessa indignazione per le diseguaglianze crescenti, la stessa diffidenza verso le oligarchie, che noi respiravamo in Brasile negli anni Ottanta». Profumo di anni Ottanta alla rovescia. Allora infatti quando si parlava di “default”, bancarotte sovrane, o spread sui bond, i paesi sull’orlo del crac erano quelli dell’America latina. Era a Brasilia che arrivavano i tecnocrati del Fondo monetario internazionale, per imporre quell’austerity che oggi viene somministrata ad Atene, Roma e Madrid. Il debito pubblico brasiliano oggi gode di una solidità evidente: nel corso del 2011 il costo dei “credit default swaps”, i titoli derivati che fungono da contratti assicurativi in caso di bancarotta, è sceso per i bond brasiliani al di sotto di quelli emessi dal Tesoro degli Stati Uniti.
L’arrivo di una massa crescente di giovani talenti, professionisti o neolaureati, dall’Europa al Brasile, è un rovesciamento dei flussi migratori in direzione Nord-Sud. Eppure non è una novità storica assoluta. Il Brasile in realtà ha avuto delle politiche d’incentivo all’immigrazione anche in epoche molto lontane della sua storia. Nel 1888 con l’abolizione della schiavitù partì un vasto programma per incoraggiare l’immigrazione dall’Europa. All’epoca, come ricorda il sociologo Sebastiao Nascimento dell’università di Campinas, uno degli obiettivi era quello di «riequilibrare la composizione etnica aumentando il peso della componente bianca nella popolazione». Oggi l’obiettivo della socialdemocratica Rousseff è ben diverso. Non interessa che i giovani italiani, spagnoli o portoghesi siano bianchi, ma che abbiano le lauree giuste e le competenze di cui il Brasile è affamato nella corsa verso la sua modernizzazione.
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