Debiti, esuberi e la vergogna del fallimento a Nordest la Spoon River degli imprenditori

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MESTRE – Le gerbere rosse sono ancora lì, appoggiate sulla terra nuda. Era tredici giorni fa quando un paese intero, Noventa di Piave, cuore del leggendario Nordest, ha accompagnato al camposanto uno dei suoi, Ivano Polita, 60 anni, un capannone di falegnameria con tre dipendenti, una moglie, una figlia e un’angoscia senza fine. L’ultima vittima della crisi. Aveva girato il mondo, il falegname Polita, a montare i negozi Benetton; poi aveva deciso – come molti, qui, dove l’80 per cento delle imprese ha meno di quindici dipendenti – di fare il salto e di diventare imprenditore. Aveva aperto un capannone, i suoi due cellulari squillavano in continuazione, lavoro ce n’era. Ma non c’erano più soldi. I committenti non pagavano. Le banche non facevano più credito. Questo mese i “suoi” non avrebbero avuto lo stipendio. «Mi sento solo», ha scritto su un pezzo di carta. Poi si è legato al collo la corda che usava per fissare i legni sul furgone e si è lasciato andare. 
Il bollettino dei suicidi si ferma all’8 marzo. Ma la Spoon River di quello che è stato il Veneto Felix è un elenco sempre più inquietante. Sono trenta i morti uccisi dalla crisi, come se il granello di sabbia del crollo della Lehman Brothers fosse rotolato fin qui, diventando una slavina gigantesca che travolge tutto. Nel primo degli anni orribili, il 2009, il fenomeno è cresciuto del 40 per cento; poi si è stabilizzato ed ora sta tornando ad impennarsi. Eppure, i dati della situazione economica del Veneto, non sono certo peggiori di quelli di altre regioni d’Italia. I dati elaborati dall’ufficio studi dalla Cgia di Mestre, danno una fotografia a colori: dal Pil (previsto + 0,6%, contro lo 0,4 della media nazionale) all’occupazione (al 65,3% contro il 59,9); dal saldo commerciale (negativo, -24 milioni di euro, per l’Italia; positivo, + 9,685 miliardi per il Nordest) ai consumi delle famiglie (+0,5 nel Veneto, +0,3 media nazionale), in fondo i paesi del benessere se la passano ancora bene. Dunque, se qui la crisi uccide, non è solo per colpa della congiuntura. 
È come se nella terra di Giuseppe Berto ci fosse un’epidemia di un male oscuro. Da sociologo, Gianfranco Bettin lo spiega così: «Questi morti erano uomini molto amati, che consideravano l’azienda quasi un’estensione della loro famiglia. Alla preoccupazione si aggiungono il dispiacere e la vergogna; il crollo del lavoro è il crollo del mondo». Anche Daniele Marini, direttore scientifico della Fondazione Nordest, afferma che l’elemento chiave è culturale: «Il 60% degli imprenditori del Nordest sono ex operai che si sono messi in proprio e hanno cercato i loro dipendenti nella comunità  locale, tra i parenti o gli amici. C’è un patto sociale fortissimo, che al peso materiale delle difficoltà  aggiunge quello morale».
Anche il primo ad impiccarsi, era stato un falegname: era diventato padroncino e aveva aperto una verniciatura. Si chiamava Valter Ongaro, aveva 58 anni, abitava a Lutrano di Fontanelle, era stato costretto a mettere i suoi ragazzi in cassa integrazione. Danilo Gasparini, di Istrana, 61 anni, l’hanno trovato in macchina, avvelenato dai gas di scarico. «Gli affari vanno a rotoli», aveva lasciato scritto. Pietro Tonin, invece, piccolo imprenditore edile, è stato ripescato nel Piovego, a Mortise, il giorno dopo Capdodanno. E poi via via, con un ritmo ininterrotto: storie tutte uguali, di lavoro che c’è e di soldi per pagare le tasse, gli stipendi, le materie prime, che mancano perché nessun cliente, a cominciare dalla pubblica amministrazione, onora i pagamenti. Storie tutte uguali, di difficoltà , di fallimenti. Diverse solo nel finale. 
«Quando fallisci – commenta Giuseppe Bortolussi, il segretario della Cgia di Mestre che sulle morti assurde sta scrivendo un libro – non vai più al bar con la macchina, ti vergogni. Hai paura che gli altri ti sfottano. Che dicano, ecco, ha voluto fare il grande e non è stato capace, poteva restare a lavorare in fabbrica». Bortolussi la definisce «un’emergenza straordinaria», e dice che è necessaria una risposta altrettanto straordinaria: «Queste persone si tolgono la vita per quattro-cinquemila euro, bisogna fare come si è fatto per l’usura, istituire un fondo di solidarietà  da dare in gestione ai Consorzi Fidi». Calcola che basterebbero 5 milioni di euro. Soprattutto, insiste, sarebbe importante agire nell’immediatezza.
Si muovono in molti. La Confartigianato di San Donà  ha pubblicato un’inserzione a pagamento sui giornali per denunciare «la colpevole e rumorosa assenza della politica» e per chiedere una legge che «garantisca i pagamenti in tempi certi e tuteli l’impresa artigiana». La Camera di Commercio di Padova, che aveva istituito un numero verde e che l’aveva chiuso per troppi contatti, sta lavorando per riattivarlo. «Con il nostro aiuto – dice Narco Nicolussi, presidente dell’Ordine degli psicologi del Veneto – abbiamo evitato almeno una decina di tragedie». E anche Luca Zaia, il governatore del Veneto, è molto preoccupato: «La situazione è esplosiva e vorrei far notare che i nostri trenta morti erano sul posto di lavoro, non alle Maldive».


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