RDC, le mille contraddizioni di un paese senza pace

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Così riportava Nigrizia, nel mese di gennaio: “Sono state elezioni travagliate da un crescendo di violenze e uccisioni. I risultati delle sole presidenziali sono stati resi noti il 9 dicembre, dopo due rinvii. Joseph Kabila è stato riconfermato alla presidenza con il 48,95% dei voti. Il suo principale antagonista, il 79enne à‰tienne Tshisekedi, cui è stato attribuito il 32,33% delle preferenze, ha rifiutato l’esito dello scrutinio, ha accusato il governo di brogli e si è proclamato presidente, attribuendosi il 54% dei voti: «Considero questi risultati una vera e propria provocazione nei confronti del nostro popolo e li rigetto in blocco».

Nell’est del paese, dove Kabila gode di molto seguito, i suoi sostenitori sono scesi in strada a festeggiare. Nella capitale Kinshasa, una delle roccaforti dell’opposizione, e in altre città  dell’ovest è subito cresciuta la tensione, con dimostrazioni anti-Kabila e scontri con le forze dell’ordine. La polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni per disperdere la folla.Il 9 dicembre si sono contate 6 vittime. Secondo l’organizzazione non governativa Human Rights Watch, la violenza legata al voto ha causato oltre 20 morti. Kinshasa è pattugliata da 20 mila soldati, pronti a intervenire. L’obiettivo è evitare che si ripeta quanto accadde dopo le elezioni del 2006, quando Jean Pierre Bemba, sconfitto da Kabila al secondo turno, aveva contestato i risultati a colpi di cannone, provocando centinaia di morti nella sola capitale. Anche Tshisekedi ha esortato i suoi sostenitori a mantenere la calma e, per non far crescere la tensione, in un primo momento ha dichiarato che non intendeva fare ricorso, accontentandosi di una richiesta dell’opposizione per una mediazione dell’Unione africana. Il 12 dicembre, tuttavia, l’opposizione ha fatto formale ricorso alla Corte suprema, come aveva consigliato il card. Laurent Monsengwo, arcivescovo di Kinshasa. Il 18 dicembre Tshisekedi ha ribadito di considerarsi il ‘presidente eletto’, promettendo di prestare giuramento il 23 dicembre”.

Nelle settimane successive però la situazione si è stabilizzata, benché da più parti siano state denunciate irregolarità . In particolare l’Assemblea della Conferenza Episcopale Congolese, in un messaggio dell’11 gennaio, parlava apertamente di “truffa comprovata”, di “vergogna per il paese”, di “risultati inaccettabili”: al governo si chiedeva “il coraggio della verità ”. Tuttavia il 2 febbraio sono stati resi noti i risultati preliminari per il nuovo Parlamento (i definitivi sono attesi in aprile) che vedono il partito di Kabila conquistare 260 seggi su 500. All’inizio di marzo si è dimesso il primo ministro Adolphe Muzito: il premier ha rimesso il proprio mandato nelle mani del presidente Joseph Kabila, come previsto, per “poterlo lasciare libero di scegliere il nuovo governo sulla base dei dati elettorali”.

Kabila dovrebbe accettare le dimissioni, incaricare l’attuale governo di gestire gli affari correnti (sotto la guida ad interim di Louis Koyagialo, ministro uscente delle Poste e telecomunicazioni) e iniziare le consultazioni per la nomina di un nuovo esecutivo.

Tutto procede bene dunque? Non si direbbe perché forze sinceramente democratiche vogliono ancora far sentire la propria voce. La Chiesa cattolica in Congo è tradizionalmente molto attenta e partecipe alla travagliata vita del paese. Il 16 febbraio scorso, a distanza di venti anni da una analoga manifestazione per la democrazia soffocata nel sangue dal dittatore Mobutu Sese Seko, il Consiglio per l’apostolato dei laici cattolici congolesi (CAICC) ha promosso una marcia per i diritti proprio nel cuore della capitale Kinshasa. Si legge sul numero 8/2012 di Adista: “l’iniziativa è stara stroncata prima della sua partenza dall’intervento ferreo delle forze di sicurezza di un regime evidentemente intimorito dal peso della Chiesa cattolica e dalle sue posizioni sempre più dichiaratamente ostili al governo in carica”. La repressione in quei giorni è stata molto intensa con “il fermo di fedeli rinchiusi dalle forze dell’ordine nelle parrocchie e liberati grazie all’intervento dei caschi blu dell’ONU; l’oscuramento di alcune radio e tv locali nonché delle emittenti dell’arcidiocesi di Kinshasa; l’arresto (e poi il rilascio) di tre preti e due suore; l’infiltrazione di gang criminali che avrebbero selvaggiamente picchiato i manifestanti”. Ma l’episodio più grave è l’oscura uccisione di suor Liliane Mapalayi, assassinata mentre usciva da una scuola cattolica dove lavorava.

Insomma il quadro è complesso e rischia sempre di degenerare. Si sa molto poco della reale situazione sul terreno, poiché sui circuiti internazionali di informazione di solito girano notizie di qualche massacro (in generale deve però superare le 10 vittime) oppure di un evento positivo come la condanna per crimini di guerra di un leader dell’LRA (Lord Resistence Army), Thomas Lubanga, riconosciuto colpevole dalla Corte penale internazionale dell’Aia per aver reclutato migliaia di bambini soldato. Come sempre accade, le azioni di questi gruppi ribelli, che trovano unanime esecrazione, sono il pretesto per campagne militari degli eserciti “regolari”. Così nell’est del Congo, nelle regioni del nord e sud Kivu, si combatte da anni senza alcuna via di uscita tra le forze armate congolesi, appoggiate dai caschi blu ONU, e le varie milizie. Recentemente, denuncia l’Agenzia Fides, si sono riaccese le violenze con quasi 100 mila profughi. “Non si sa praticamente nulla dell’operazione ‘Pace Perfetta’, avviata da alcune settimane nel sud Kivu ed ora estesa al nord Kivu” riferisce all’Agenzia Fides una fonte della Chiesa locale dall’est da Bukavu, capitale del Sud Kivu”. … “Non c’è nessun giornalista che segua direttamente queste offensive militari che ormai avvengono periodicamente. In mancanza di notizie indipendenti le autorità  congolesi e dell’ONU ci raccontano quello che vogliono” afferma la fonte di Fides. “Non si hanno notizie di scontri tra le forze congolesi e i ribelli, ma è certo che queste operazioni militari svuotano la popolazione dell’area, probabilmente per installare qualcun altro al loro posto”.

Queste notizie testimoniano l’intrecciarsi di questioni che non consentono all’Africa (e il Congo è uno specchio fedelissimo di ciò che agita il continente) di sbrogliare la matassa. Le elezioni da sole non significano nulla: occorrerebbe un’iniziativa a livello regionale attraverso l’Unione africana e un appoggio incondizionato della Chiesa di Roma, che spesso vede l’Africa da troppo lontano, ai vescovi congolesi.


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