“Strage in mare, la Nato non ci ha soccorso”
“Proteggere i civili”: era lo scopo dell’intervento Nato in Libia, secondo la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Eppure le navi dell’Alleanza Atlantica hanno scientemente evitato di soccorrere una barca piena di civili in fuga dalla Jamahiriya, abbandonandoli al sole e al Mediterraneo fino a quando le onde li hanno spinti di nuovo sulle coste libiche. Nel frattempo 63 persone erano morte. In quei giorni alla presidenza del Comitato militare della Nato, incaricato di dirigere l’attività dell’Alleanza, era l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, oggi ministro italiano della Difesa.
La vicenda del gommone partito verso Lampedusa il 25 marzo del 2011 era già stata segnalata, ma l’Alleanza aveva smentito ogni contatto. Ora però a rilanciare la storia sono due documentari, con numerose testimonianze: “Mare chiuso”, nelle sale cinematografiche, mette sotto accusa l’accordo italo-libico sui respingimenti, ma soprattutto “Mare deserto”, trasmesso dalla televisione svizzera, un vero atto d’incriminazione, a cui si affianca un’indagine dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
Secondo l’inchiesta della tv svizzera, il gommone parte da Tripoli con 72 migranti di varie nazionalità : etiopi, eritrei, sudanesi, nigeriani, ghanesi. Quando la barca incontra difficoltà nella navigazione, con l’unico telefono satellitare a bordo viene lanciata una richiesta d’aiuto a padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo residente in Italia che si occupa di aiuto ai migranti. Il prete contatta la Guardia Costiera, che individua il gommone in acque libiche, a 60-70 miglia dalla costa, e lancia l’allarme, chiedendo alle navi in transito di riferire ogni avvistamento, come prevede la legge del mare.
Entra in scena l’Alleanza atlantica: un elicottero militare sorvola la barca, si allontana, poi ritorna e scarica una decina di bottiglie d’acqua e qualche scatola di biscotti proteici. I testimoni raccontano di aver letto la scritta “Army” sulla fiancata, ma non è chiaro di quale contingente l’elicottero faccia parte. Passano alcuni giorni, i migranti cominciano a morire di fame e di sete, qualcuno cade in mare nella notte. Il gommone avvista diverse navi militari, fra cui forse una fregata che si avvicina. Secondo la Nato, in quel momento sono almeno 21 le navi dell’Alleanza schierate al largo della Libia: potrebbero essere, ricostruisce la tv svizzera, di Italia, Spagna, Turchia, Belgio, Canada, Stati Uniti, Francia o Gran Bretagna. Un testimone racconta di aver sollevato il corpicino di un bimbo morto sul gommone e di averlo mostrato – senza risultato – ai marinai della nave da guerra, che osservavano con i binocoli e fotografavano i migranti.
Per ora di quelle immagini non c’è traccia: le richieste di chiarimenti non danno risultato. Quando la barca torna sulle coste libiche, solo nove persone sono sopravvissute. La Nato nega ogni coinvolgimento, per voce del generale Claudio Gabellini: «In caso le navi della Nato siano coinvolte direttamente in simili eventi, i comandanti delle unità militari faranno tutto il possibile per garantire che il loro comportamento rispetti il diritto marittimo internazionale e le consuetudini». Anche la portavoce Carmen Romero smentisce: «Le unità della Nato in mare non hanno visto né sentito alcun segnale di una chiamata di emergenza in quell’area».
Poi però il quartier generale dell’Alleanza ammette: l’allarme della Guardia Costiera è stato ricevuto, un’unità militare era a 24 miglia dal punto di localizzazione del gommone. Per ora non è chiaro di quale nazionalità fosse. Ma la senatrice olandese Tineke Strik, responsabile dell’inchiesta per il Consiglio d’Europa, ha ottenuto da Catherine Ashton, rappresentante Ue per gli Esteri, l’accesso all’European Satellite Center. Nei prossimi giorni ci dirà chi per ultimo ha chiuso la porta davanti ai migranti, condannandoli a morire in mare.
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