Un dominus tv che salvi il salvabile

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E quindi tanto decisiva da compromettere l’impegno dell’esecutivo per il risanamento. L’economia nazionale viene prima anche della televisione pubblica. Viale Mazzini – rovesciando il motto attribuito a Enrico di Borbone, per giustificare la conversione dalla religione protestante a quella cattolica – non vale insomma una messa.
È evidente tuttavia che, in vista ormai dell’imminente scadenza del Consiglio di amministrazione, una soluzione bisogna pur trovarla senza proroghe o rinvii, per rinnovare il vertice e soprattutto l’assetto dell’azienda. Cioè per affrancarla dalla subalternità  politica e restituirla alla funzione istituzionale di servizio pubblico, come continua a sollecitare anche l’Usigrai, il sindacato dei giornalisti, con il suo segretario Carlo Verna. E verosimilmente non c’è governo più autorevole e forte di questo per avviare almeno una bonifica di tale portata.
L’ipotesi del commissariamento di fatto, messa sul tavolo dal professor Monti nel recente vertice dei tre segretari di partito che fanno parte dell’attuale maggioranza, condivisa dal Pd di Bersani e dal Terzo polo prima con Fini e ieri anche con Casini, può corrispondere dunque a una logica di necessità  e urgenza, come si dice per i decreti-legge: vale a dire un intervento d’emergenza o di pronto soccorso. Non un commissariamento in senso stretto, per il quale non ricorrono i presupposti giuridici dal momento che ancora quest’anno il bilancio Rai chiude formalmente in pareggio. Ma comunque, in attesa di una riforma organica della “governance”, un rafforzamento delle responsabilità  e quindi dei poteri del direttore generale attraverso un ampliamento delle sue deleghe operative.
Nelle mani del presidente del Consiglio, questo può anche essere un deterrente o magari uno spauracchio per indurre il Pdl a più miti consigli. E in ogni caso, al contrario di quanto va blaterando l’ex ministro Gasparri, si tratta di una prospettiva del tutto legittima e costituzionale. È proprio in forza della scellerata legge che reca ancora le sue impronte digitali, infatti, che l’esecutivo è pienamente autorizzato a procedere di conseguenza, nominando ora il nuovo rappresentante del Tesoro all’interno del Cda e modificando in pratica i vecchi equilibri tra l’ex maggioranza e l’ex opposizione.
Fin dai tempi di Ettore Bernabei, del resto, il direttore generale è il “dominus” dell’azienda. Ma è stata la partitocrazia a limitarne sempre più i poteri per legargli le mani e tenere la Rai sotto controllo. Al momento, dunque, il numero uno di viale Mazzini è un manager a sovranità  limitata: può fare proposte al Cda, ma deve sottomettersi alle sue decisioni e soprattutto ha un limite di spesa (un paio di milioni di euro) che nel mercato televisivo – dove si trattano produzioni, appalti, compensi e diritti per cifre molto più elevate – rappresenta oggettivamente un “minus” o un impedimento alla sua libertà  di azione.
Finora, il direttore generale della Rai ha incarnato – per così dire – la maggioranza di governo e ancor più i voleri dell’esecutivo. Nella fase terminale dell’era berlusconiana, da Mauro Masi a Lorenza Lei, si può dire anzi che sia stato praticamente un funzionario di palazzo Chigi, eseguendo più o meno alla lettera le direttive ricevute dall’alto, disponendo a cascata l’organigramma e smantellando pezzi dell’azienda, fino all’espulsione di tanti collaudati professionisti dalla Rai e alla riprovevole nomina di Augusto Minzolini alla direzione del Tg1. Tutti danni d’immagine e ancor più materiali, in termini di audience e quindi di raccolta pubblicitaria.
Ben venga, allora, un super-direttore generale dotato di pieni e ampi poteri. Meglio ancora se si trattasse di una figura manageriale con un’esperienza specifica in campo televisivo, magari già  conoscitore dell’azienda e dei suoi meccanismi interni. Un commissario straordinario, insomma, in grado di rispondere più ai cittadini, al popolo dei telespettatori e degli abbonati, piuttosto che alla nomenclatura politica.


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