IL CALDERONE DEL MALAFFARE

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 Un significato che rinvia a una questione che il Paese si porta dietro da quando è nato – già  nell’Italietta post-unitaria era ben nota, col nome di “faccenderia”, quella che oggi chiamiamo corruzione – ; una questione che ciclicamente si pone, e che costantemente rinvia. 
Che il premier Monti lo stesso giorno affermi che il primo problema sollevato dai leader stranieri non è più la messa in sicurezza dei conti pubblici ma la nostra riluttanza a varare una nuova ed efficace legge anticorruzione, e che anche da questo nostro ritardo sono frenati gli investimenti esteri in Italia, significa che tutto il mondo ci sta mandando il messaggio che la corruzione è ormai oltre il livello di guardia.
E mentre il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio lanciano messaggi che si echeggiano l’uno con l’altro, le cronache registrano sempre nuovi casi di corruzione – o di indagini per corruzione – , quasi a dimostrare che le voci delle istituzioni non rimbalzano nel vuoto, ma registrano una realtà  fin troppo piena di scandali, troppo folta di sospetti, straripante di illegalità . Fatta salva la presunzione d’innocenza, e le necessarie distinzioni fra le diverse gravità  dei fatti e fra i diversi stili di amministrazione nelle diverse regioni d’Italia, è quasi inevitabile che all’opinione pubblica appaiano omologate le pratiche di governo locale della Lombardia e della Puglia, dell’Emilia e della Liguria (solo per parlare delle realtà  locali che in questi ultimi giorni sono giunte a contendere l’onore delle cronache ad altri scandali di livello nazionale, come quello dei fondi della Margherita). E che il pesce e le cozze si confondano, in un unico calderone, con ogni altro, e ben più grave, malaffare. 
Un’omologazione fatale, che non può non accrescere – semmai ce ne fosse bisogno – la delegittimazione dei partiti, e della politica in generale; e che dimostra ad abundantiam che la corruzione è un cattivo affare sia da un punto di vista economico sia da un punto di vista civile. Che, insomma, distrugge capitali d’investimento, ma anche e soprattutto quel capitale sociale e civile di fiducia reciproca fra i cittadini, e fra questi e le istituzioni, che è il patrimonio più prezioso di una democrazia e in generale delle forme politiche moderne. La cui essenza è l’impersonalità  e l’imparzialità  del comando legislativo e degli atti amministrativi, e il cui fine è sottrarre la vita civile all’arbitrio, all’ingiustizia, alla partigianeria, al favoritismo, e fondarla sulla prevedibilità  del potere, frenato dalla legge, e sull’uguaglianza dei cittadini nella sfera pubblica. La corruzione – in quanto è appunto il prevalere delle ragioni private su quelle pubbliche, la vittoria della famiglia sulla polis, della disuguaglianza sull’uguaglianza, del vantaggio di pochi sulla pubblica utilità  – di fatto riporta la politica a una logica di scambi personali, di fedeltà  private, di lealtà  tribali, che sono la negazione del “pubblico”. Che può ben prevedere il compromesso alla luce del sole, la trasparenza delle transazioni tra forze politiche differenti, all’interno del quadro della legalità , ma non certo l’oscuro lavorio di mercificazione della politica, di svendita sottobanco della democrazia, in cui, alla fine, consiste la corruzione. 
Il cui esito, se non viene contrastata pubblicamente ed efficacemente, e sanzionata in forza di legge – di una legge che non contenga sotterfugi e regali in extremis a favore di chi ha già  goduto di fin troppe leggi ad personam – , non può essere altro che la distruzione della fiducia nella politica. Un “liberi tutti” permanente, una frammentazione privatistica della vita associata, che segnerebbe, in realtà , la fine della fiducia degli italiani in se stessi. E il trionfo di una sorta di legge della giungla, divenuta la costituzione materiale di un popolo, trasformato in un insieme di cricche, che si autogiustifica con un comodo “così fan tutti”, e che, magari, crede di salvarsi l’anima con l’invettiva antipolitica, con lo sdegno a man salva – le reazioni dell’opinione pubblica a Tangentopoli, e il successivo passaggio della maggioranza degli italiani nelle schiere di Berlusconi sono un esempio non fuori luogo di queste dinamiche – . 
Chi si pone il problema del dopo-Monti, del ritorno alla fisiologia di una politica che veda come protagonisti i partiti, deve anche porsi – e porre con forza – il problema della loro ri-legittimazione. E dovrà  anche fare della legge anti-corruzione il banco di prova di un’autentica volontà  di riscossa democratica – non populista né qualunquista – contro il degrado indecente della nostra vita civile. “Qui c’è Rodi, qui salta”: un popolo di donne e di uomini liberi sa che il proprio sviluppo passa attraverso un nuovo costume, e lo esige da se stesso ma anche, e prima di tutto, da chi lo vuole rappresentare e amministrare.


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