Marcegaglia lascia, le imprese no e «sognano» crescita

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Emma Marcegaglia, presidente uscente all’ultimo discorso pubblico in questa veste – giovedì l’assemblea degli industriali sceglierà  il successore tra il moderato Giorgio Squinzi e il «marchionnesco» Alberto Bombassei – ha avuto il buon gusto di ricordare l’epoca in cui l’associazione cui appartiene «trattava sussidi per questa o quella impresa». Non si tratta di tracce perdute nella nebbia dei secoli, ma roba di oggi o quasi. Però, ha giurato, «abbiamo realizzato un cambio di mentalità  e approccio», e quei tempi «spero che non tornino più»; perché «abbiamo deciso di essere la voce di chi lavora sul mercato e si batte per il mercato».
Fosse vero… Uscendo, Marcegaglia ha invece «chiesto» ancora qualcosa al governo. Ammettiamo senza problemi che stavolta non si tratta di «sussidi per questa o quell’impresa» – un lavoro da sensali, più che da «sindacato delle imprese» – ma comunque una pressione sul governo e sui sindacati dei lavoratori affinché «la riforma del mercato del lavoro che non sia al ribasso». Ovvero che comprenda l’abolizione dell’art. 18 e dei «sovraccarichi contributivi» previsti per chi decide di assumere ricorrendo ai contratti a termine. Il quel caso, ha promesso, «non ci sarà  la firma di Confindustria». Diverso è il discorso sugli ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione. La quale – per chi non lo sa – è un istituto chiesto per prassi dalle imprese perché è a favore delle imprese; che possono smettere di pagare stipendi per una parte dei propri dipendenti per il periodo che il ministero riconosce esser necessario. Incidentalmente, torna utile anche ai lavoratori, che infatti contribuiscono a finanziarla con trattenute mensili. Se Elsa Fornero ha deciso di «diluire» l’entrata a regime nel «nuovo sistema» di ammortizzatori – via molte forme di cig e dentro un sussidio di disoccupazione universale di molta più breve durata – è stato in primo luogo proprio per la resistenza di Confindustria. 
La quale, però, coltiva illusioni economiche davvero pericolose. Quasi ideologiche, se si può dire. Lo studio presentato al convegno Cambia Italia dal direttore del Centro studi, Luca Paolazzi, prova a quantificare ciò che il governo non aveva osato: quanto potrebbe contribuire alla crescita la «riforma» che si sta discutendo (per modo di dire, come si può leggere di fianco). Il quotidiano di Confindustria «spara» il risultato in modo pateticamente propagandista: «con le riforme la crescita triplica».
Sorbole!, direbbero in Romagna. Peccato che le cifre siano – intanto -del tutto ipotetiche, proiettate da qui a 20 anni. E, in secondo luogo, irrisorie. Invece di un +0,7% annuo (teorico, visto che siamo in recessione) si arriverebbe al 2,2. I grafici mostrano «impennate» là  dove altri ricercatori vedrebbero risalite impercettibili. Ma la domanda vera è: tutta questa distruzione della coesione sociale, del «patto costituzionale» tra impresa e lavoro, della vivibilità  e della futura domanda solvibile… per un +1,5% annuo? A questo siete ridotti?


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