Il profondo Sud dell’America sceglie Santorum
WASHINGTON – Cominciate come una farsa e commedia degli equivoci, le primarie repubblicane sono diventate con le ultime vittorie di Rick Santorum nel profondissimo Sud, un dramma che allunga ombre angosciose sulla nazione e sul resto del mondo. Rick Santorum, l’uomo che non poteva vincere, il “taliban” della destra più retriva e integralista che sembra uscito da telefilm paternalistici degli anni ‘50 e sogna di riportare l’America indietro con sé di mezzo secolo, continua a vincere. Lo hanno ribattezzato lo «undead», il nonmorto vivente, lo zombie, e lui cammina. Ha conquistato i due stati Mississippi e Alabama per l’umiliazione di Romney, il designato dall’establishment, il moderato, addirittura terzo dietro anche al residuato degli anni ‘90, Gingrich.
È arrivato il momento di prenderlo sul serio. I mandarini del partito e la “punditocracy”, la classe di teste parlanti in tv e dei commentatori, devono accettare l’evidenza di un elettorato radicale in guerra contro la modernità , la diversità , il femminismo, la separazione fra stato e chiesa, i diritti civili e – anche se questo può essere detto soltanto con espressioni in codice – le minoranze etniche. «L’America – rispose Santorum a Obama lanciando la propria avventura elettorale – era grande anche prima del 1965, signor Preidente». E la folla osannò. Perché proprio il 1965? Perché quello fu l’anno della conquista dei diritti civili, dopo la marcia di Martin Luther King sul ponte di Selma, in Alabama.
La ribellione – che Rick Santorum definisce addirittura «insurrezione» – della destra americana contro sé stessa sta dimostrando a che cosa servano le elezioni primarie. Se le elezioni generali americane sono quelle che in novembre decidono il nome del nuovo presidente soprattutto grazie alle scelte più razionali di cittadini indipendenti e oscillanti, spesso apolitici e poco settari, le primarie sono il campo di gioco per le minoranze accanite e militanti. Le elezioni generali parlano alla testa. Le primarie parlano alla pancia. E ormai non ci possono essere più dubbi che l’italoamericano della Pennsylvania, il nipote del minatore emigrato dal Lago di Garda con le mani incallite dal piccone che il nipote Rick vide composte con il rosario nella bara aperta, è la voce del ventre repubblicano. I sondaggi pre-elettorali in Alabama e in Mississippi, i due stati storicamente più retrivi e razzisti degli Stati Uniti che si arresero per ultimi ai diritti civili per gli afroamericani (ricordate “Mississippi Burning”?) non rappresentano tutta la nazione e neppure tutto il partito repubblicano. Ma senza di loro, senza la spinta e la mobilitazione degli ultrà del fondamentalismo evangelico e della supremazia bianca (il 97% dei repubblicani in questi stati sono bianchi) nessun candidato di destra alla Casa Bianca ha alcuna speranza di entrare allo Studio Ovale.
Sembrerebbe arrivato il momento di quello che nel dialetto politico americano si chiama il “bandwagon”, il carrozzone del vincitore sul quale saltare, ma così come la destra più idrofoba e fanatica non ha alcuna intenzione di rassegnarsi al matrimonio d’interessi con Mitt Romney, così la destra più moderata e ragionevole non vuole arrendersi alla resistibile ascesa del chierichetto italoamericano, tanto caro alle gerarchie cattoliche. La passione degli “insorti”, la robustezza del movimento di base e spontaneo che sta spingendo Santorum possono non bastare a sorreggerlo, anche in elezioni primarie dove non servono formidabili organizzazioni e vagoni di soldi.
Il voto dei dollari resta saldamente dalla parte di Romney che ha in cassa 64 milioni di fondi elettorali privati contro i neppure 7 di Santorum, dieci volte. L’aritmetica dei delegati, che è come la classifica in un campionato di calcio, continua a dare ragione al Mormone contro il Cattolico. Anche dopo le sconfitte politiche gravissime nei due stati del Sud, non compensate da una vittoria nelle lontane Hawaii, Romney ha addirittura aumentato il proprio vantaggio sull’avversario: ha quasi 500 delegati contro i 252 dell’altro. E lo scopo del gioco, nelle primarie, è di fare abbastanza punti – cioè tradurre i voti in delegati – per arrivare al traguardo dei 1.144 necessari per essere incoronati alla convention di fine agosto. Tra meno di una settimana, si voterà in Illinois, lo stato di Chicago, con 69 delegati in palio, in aprile a New York, che ne offre 95. A fine maggio c’è il “jackpot”, il Texas con addirittura 155. Tutti stati nei quali Romney dovrebbe vincere. “Dovrebbe”. Questa è la parola chiave, perché Santorum “dovrebbe” essersi arreso da tempo alla sontuosa macchina da guerra di Romney e alle pressioni dei maggiorenti e non lo fa. Può darsi che presto, ma non prestissimo, la verità delle cifre lo pieghi e riassorba “l’insurrezione” come in passato accadde tanto a “indignados” repubblicani quanto ai democratici, da McGovern a Dean, da Goldwater al Reagan del 1976 che insidiò il presidente in carica Ford fino al congresso del partito, perdendo per pochi voti la nomination.
Ma quello che spinge il “nonmorto” a camminare ancora è la presenza di un altro zombie della politica, Newt Gingrich, con il suo serbatoio di voti che potrebbero riversarsi su Santorum, quando inevitabilmente si ritirerà e soprattutto è la debolezza del presidente Obama, che l’aumento del prezzo della benzina – la più odiosa delle gabelle per un popolo americano convinto di avere il diritto naturale ai carburanti a basso costo – ha fatto precipitare nei sondaggi. Lui sa che chiunque sarà , alla fine del dramma, l’ultimo ancora in piedi, il Mormone o il Sacrestano, i cocci del partito repubblicano si ricomporranno attorno a lui per cacciare l’usurpatore esecrato, il «socialista», il troppo diverso Obama. E se fosse Rick Santorum, l’America civile conoscerebbe un grande balzo. All’indietro.
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