Quel vocabolario poco sobrio del governo

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«Paccata»? Che vocabolo è mai questo? Una sberla alla piemontese, una nuova forma di sadomasochismo contributivo? I giovani dicono «un botto», i meno giovani «un casino», gli anziani «un sacco», gli antenati «un mondo». «Una paccata» è nuovo. Sa di antiche consegne a domicilio, rassicura.
«Paccata» funziona per un motivo: è un termine irrituale, sorprende. La parola «stangata» s’è rivelata altrettanto efficace, un tempo; poi si è consumata, e ha finito per provocare sbadigli, come la sigla del telegiornale. «Manovra, in arrivo la stangata!» titoliamo noi giornalisti, sempre eccitati per le storie di ieri. I lettori e i telespettatori, giustamente, non ci fanno caso. Finché la stangata arriva davvero; ma a quel punto diventa una questione economica, non linguistica.
Il governo Monti non ha una strategia di comunicazione, e forse è meglio così. Dopo anni di marketing ed effetti speciali, siamo tutti smaliziati. O forse stanchi. Ho ascoltato Vittorio Sgarbi e Daniela Santanchè chiamati a litigare nel programma di Piero Chiambretti. Non emettevano parole, ma echi del passato prossimo. L’onorevole signora, in particolare, ricorda certi personaggi dei film dei Vanzina: bellicosi, incoerenti ma non cattivi, sempre sopra le righe (a proposito, Enrico e Carlo: ci avete pensato?). 
Non è solo questione di vocabolario, quindi: dipende dalla bocca da cui escono le parole. Quanti, negli ultimi anni, hanno detto in pubblico «…la politica fa schifo!»? Migliaia di italiani: negli anni della «casta» era una frase convenzionale, accettata bonariamente anche dai politici (meglio un’accusa generica che un’indagine specifica, no?). Ma appena il ministro Andrea Riccardi ha usato la stessa espressione, apriti cielo! Perché era chiaro: non era una dichiarazione studiata, né una forma di calcolato populismo. Era una voce dal sen fuggita (un’espressione, questa, più adatta a Nicole Minetti). Qualcuno sostiene addirittura che fosse un understatement; di certo, interpretava un sentimento diffuso (il gradimento dei politici italiani è sceso all’8%, appena sopra banchieri e serial killer).
È il ritorno della temperatura ambiente, improvvisamente attraente dopo il gelo e le scottature. Silvio Berlusconi sarà  affascinato da questi corsi e ricorsi. Per sembrare moderno aveva adottato il linguaggio dello stadio e del bar; ora al bar chiedono alla politica di diventare adulta, seria, e di farsi capire. Basta chiamare «risibili» accuse che non fanno ridere; «pasticci» gli imbrogli; «criticità » i disastri; «moralisti» le persone morali. Basta dirsi «sereni» e/o «indignati» quando ci si dovrebbe vergognare. Basta definire «epocale» l’ordinaria amministrazione. Basta promettere «Non metteremo le mani nella tasche degli italiani!», quand’è chiaro che tutti andranno a finire proprio lì, senza essere né borseggiatori né palpeggiatori. 
Poi un giorno, miracolosamente, è finita.
Pensate all’episodio diventato il segno battesimale di questo governo. Monti e Fornero (senza articolo) si mettono a spiegare la deindicizzazione delle pensioni minime, lei si commuove, lui non sa improvvisare una spiegazione e allora dice: «Correggimi. Commuoviti, ma correggimi…» Non male, e non male perché non nuovo.
Un’altra parola-totem è «tabù» (l’accostamento sarebbe piaciuto a Sigmund Freud). Da quando Elsa Fornero — sempre lei, la sciamana linguistica dell’esecutivo — ha usato il vocabolo per spiegare che la riforma del lavoro non si sarebbe fermata davanti all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, l’Italia è tutta un tabù. La Juventus che non vince, un torneo di tennis, una partita di rugby, i profilattici a scuola, Dante Alighieri: quelle due sillabe, fino a ieri timide evocatrici di liquirizia, sbucano dovunque. Ieri è apparso questo titolo: «Boss gay, oggi si può. Per la mafia non è più un tabù».
Qualcuno parla di sobrietà  linguistica, ma è una spiegazione che non spiega. È diverso ed è curioso: le parole e le frasi che in questi quattro mesi hanno lasciato il segno — opportune o inopportune che siano — appartengono al modernariato linguistico.
«Se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato…», ci ha spiegato il viceministro Michel Martone. «Noi italiani siamo fermi al posto fisso nella stessa città  di fianco a mamma e papà », ha detto il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. «Ordine del giorno Mecacci e company…» ha annunciato il ministro Piero Giarda, utilizzando un’espressione demodé come l’acqua di colonia. Gianfranco Fini non ha gradito: «Più rispetto per il Parlamento, non dica “Mecacci e company”». Forse dimentica, il presidente della Camera, i modi con cui alcuni parlamentari hanno mancato di rispetto al Parlamento, quindi a tutti noi. L’elenco non è nel vocabolario, ma nel Codice penale.


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