Nimby Quando la parola d’ordine è “Non nel mio cortile”
Not in my backyard, ovvero “non nel mio cortile”. È il grido con cui l’uomo medio fa sentire la sua voce per opporsi a un’impresa, a un’opera a un’iniziativa, che, benché presentata come utile o almeno come legittima, gli reca praticamente disturbo. Dagli Usa all’Europa, dalle centrali nucleari alla Tav, dalle discariche di immondizie o di rifiuti pericolosi, alle servitù militari, dai termovalorizzatori agli impianti eolici, la sindrome nimby è da tempo una realtà politica, con cui politici e tecnici, pianificatori ed esecutori, debbono fare i conti.
La sindrome nimby non si dichiara mai apertamente come egoistico disinteresse per gli effetti positivi a lungo termine o a grande raggio dell’opera a cui ci si oppone, e come occhiuta attenzione solo ai fastidi immediati che arreca. Anzi, si giustifica attraverso varie strategie argomentative: ora come ecologismo, ora come pacifismo, ora come contestazione di uno sviluppo fondato sul profitto, sul consumo di territorio, di energia; ora come buon senso, come domanda di equa ripartizione dei sacrifici e dei costi del vivere associato. In ogni caso, per quanto sia difficile da isolare, il virus nimby mette in gioco categorie portanti e concetti architettonici del pensiero politico, e delle istituzioni politiche moderne.
Ciò che va in crisi è in primo luogo il rapporto fra pubblico e privato, fra la casa e la polis. La sindrome nimby si oppone, infatti, a opere che, anche se eseguite da privati che ne traggono grandi guadagni, hanno tuttavia il crisma dell’ufficialità , la legittimazione della pubblicità , la copertura della legge. È come se il patto di cittadinanza originario – che implica la cessione di alcuni diritti individuali alle istituzioni, perché queste, legittimate dalla propria natura rappresentativa, possano progettare e realizzare il bene comune, o almeno la pubblica utilità – venisse revocato. I singoli, i piccoli gruppi, si riprendono il diritto di far valere direttamente le proprie ragioni, di salvaguardare il proprio utile particolare, delegittimando i pubblici poteri. Oppure, è come se lo spazio politico cessasse di essere liscio, omogeneo, continuo – quale, appunto, è stato costruito giuridicamente dalla sovranità moderna, e quale l’ha confermato la democrazia, introducendovi il principio di uguaglianza – : è come se i luoghi, le comunità locali, ritrovassero vita autonoma e rivendicassero la propria “differenza” contro l’universale, contro il Leviatano.
Tutto ciò può essere interpretato in due modi opposti. Può essere visto come l’ultima ed estrema spoliticizzazione della società e dei singoli individui, che per assuefazione alla politica e ai suoi vantaggi hanno perduto ogni consapevolezza dei suoi costi; che conoscono solo diritti a cui non corrispondono doveri; che si sottraggono irresponsabilmente alla responsabilità collettiva della democrazia. Il trionfo dei free rider, insomma; di chi difende i propri privilegi corporativi incurante del danno collettivo che nasce dalla sua indisponibilità a sacrificare un po’ di benessere privato. La vittoria di una psicologia elementare e infantile, di chi non vuole vedere, o non sa più vedere, al di là del proprio naso. L’estendersi a livello di massa di una patologia antipolitica. Insomma, un sintomo inquietante del declino del Pubblico.
Ma la sindrome nimby può anche essere la spia di qualcosa di opposto, cioè di una disaffezione attiva e non passiva rispetto all’universale e alle sue esigenze; può essere l’accusa contro pubblici poteri che non sono più visti come politici né democratici, ma semplicemente oppressivi e asserviti a interessi privati (questi sì egoistici); può essere la rivendicazione di una politica su base territoriale, davvero civica e responsabile, partecipativa e comunitaria, che si afferma sul fallimento della politica ufficiale – rappresentativa e democratica solo di nome, ma alienante e rapinatrice di fatto – ; può alludere al conflitto fra la libertà concreta e la (presunta) necessità del potere, fra la volontà di vivere in un mondo a misura d’uomo e l’incomprensibile gigantismo delle tecnostrutture.
Decifrare il significato della sindrome nimby è quindi complicato; le due interpretazioni, benché opposte, si confondono inestricabilmente in parecchie circostanze. In ogni caso, nimby è il nome di una sfida alla democrazia; infatti, la politica democratica non può né essere sempre ineffettuale perché contestata dai territori, né d’altra parte può abbattersi su questi come una fatalità inesorabile, con opere smisurate, estranee alle logiche sia della casa sia dopo tutto della stessa polis; il particolare e l’universale, l’utilità a breve e quella a lungo termine, la psicologia egoistica e quella civica, devono trovare un nuovo equilibrio. Che sarà reso possibile, verosimilmente, da un nuovo ruolo della discussione, dall’attento e paziente vaglio delle opinioni argomentate; e quindi dalla rinnovata legittimità della decisione formale, della legge, che è comunque destinata a chiudere con efficacia il dibattito, a sancire e a eseguire la deliberazione. Nella consapevolezza, da parte di tutti – cittadini e pubblici poteri – che la politica non è mai un gioco sempre a somma positiva per tutti, e che proprio per questo vantaggi e svantaggi devono essere equamente distribuiti; e che alla politica, non alla sua negazione, spetta il compito di organizzare il rapporto a misura d’uomo fra gli spazi privati e pubblici. Perché l’uomo abita tanto la casa (e il suo cortile) quanto la polis e l’agorà .
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