Capire le ragioni degli afghani per non rifare l’errore del Vietnam
Gli Usa fecero e fanno dell’Afghanistan una sorta di antimurale non più contro l’impero sovietico, ma contro l’epidemia del terrorismo islamico. Tuttavia hanno compreso troppo tardi che il fondamentalismo tribale non è una sovrastruttura dell’Islam, quanto una delle sue forme politiche armate di massa che si determinano quando si formano delle classi medie che mirano al radicamento locale per fondare un potere economico non transeunte, ma fondamentalista, appunto, che vieta qualsivoglia altro potere, e che può essere regolato solo tramite i capi locali.
La strategia nordamericana in Afghanistan e in Iraq è cambiata perché si è compresa questa dinamica. E allora occorre non più distruggere il nemico, ma trattare con coloro che assolvono a ruoli borderline, siano essi i talebani in Afghanistan o il presidente sciita Nouri al-Maliki in Iraq. Purché si riesca a superare l’incomunicabilità delle culture e penetrare il cuore della nuova formazione economico-sociale formatasi in venti anni di guerre. Ma questa strategia ha dinanzi a sé un muro alto quanto un grattacelo. Si è tentato di superarlo con la tecnologia sostituendo gli uomini con i droni e le macchine da guerra dei moderni Leonardo Da Vinci. Ma l’effetto è stato ovunque di segno contrario: le tecnologie non sono mai così precise da risparmiare i civili nelle azioni di guerra e quindi l’odio non fa che crescere e assumere una dimensione ontologica: è l’Occidente, per le popolazioni locali, a distruggere vite e comunità .
Un dramma simile era già stato rappresentato sul palcoscenico della guerra in Vietnam: i marine sparavano sui contadini che credevano Vietcong. I soldati sudvietnamiti, i quali dovevano affiancare le truppe nordamericane, via via vedevano aumentare i disertori. Anche lì la vera tragedia fu l’incomunicabilità culturale. Le guerre si vincono sul terreno e solo sul terreno ed è per questo che i militari sono sempre gli ultimi a volerle, perché le fanno, e i politici sono i primi a volerle, perché non le fanno. È sul terreno che bisogna sia combattere sia condurre una strategia di alleanze che disgreghi i nemici e li indebolisca. È questo che non è riuscito non solo ai nordamericani, ma a tutti i soldati occidentali.
L’Islam non è una religione terroristica, tutt’altro! Ma può divenire un formidabile collante ideologico che conduce alla lotta e alla morte intere comunità e generazioni. L’Islam, in Iraq e in Afghanistan, sarà sempre, pur nelle divisioni fratricide che l’attraversano, il meccanismo identitario che dà dignità a milioni di uomini. Così come aveva ben capito Walter Bejamin non è il protestantesimo l’essenza del capitalismo: è il protestantesimo a essere divenuto una religione capitalistica, perché il capitalismo era ed è un formidabile amalgama di simbologie, di fedi, di prassi. Così è per le società islamiche. Aver pensato di incrinarne la compattezza con la guerra e con la conquista sul terreno dividendo le comunità e le popolazioni una dall’altra per creare spazi di infiltrazione culturale si sta rivelando sempre più fallimentare. Le vite umane perse in queste guerre sono già moltissime. Così come fu in Vietnam. Le memorie di Robert McNamara sono impressionanti se rilette oggi: la tecnologia del grande capitalismo occidentale con le sue religioni consumistiche non aveva effetto sulle popolazioni locali. L’unico effetto che ebbe fu il dolore immenso che investì gli Usa tramite i suoi disperati veterani che sono un dramma troppo poco conosciuto.
È molto probabile che in Afghanistan si rappresenterà un nuovo tremendo dramma. L’Iraq ha ancora la possibilità di non cadere nella lotta fratricida tra sciiti e sunniti che travolgerebbe ogni baluardo militare occidentale decretandone il fallimento. Fortunatamente negli Usa il dibattito è aperto, con coraggio, con determinazione. Ma l’Occidente è uno e uno solo. Anche noi dovremmo fare la nostra parte, culturalmente e non solo militarmente.
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