Dalle riviste alle canzoni le parole delle donne

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Non è stato facile per le donne, come in altri settori della nostra vita associata, conquistare il pieno possesso dell’italiano anche dopo il riconoscimento dello Statuto Albertino, nel 1848, di «lingua officiale delle Camere». L’anno 1861 in cui è sancita l’unità  nazionale l’81 per cento della popolazione femminile è ancora analfabeta, e dieci anni dopo il censimento registra una percentuale del 75,7. Il percorso educativo si forma in casa o negli istituti religiosi. L’accesso ai pubblici impieghi è limitato. Un ritardo clamoroso, in linea con l’emarginazione che distingue la maggioranza delle donne. Tranne alcune pioniere di elevato livello sociale «per nascita o matrimonio» che già  nei primi decenni dell’Ottocento si battono per l’emancipazione.
Conoscono lingue straniere, tengono salotto, sono patriottiche, fondano istituzioni scolastiche, esprimono indirizzi pedagogici, coltivano amicizie culturali importanti, pubblicano libri, scrivono sui giornali femminili, trasmettono alla lingua le loro esperienze e la modellano. Oltre all’italiano letterario piuttosto aulico adoperato in romanzi, racconti, poesie (tranne rari casi è una produzione modesta), si appropriano dei termini tecnici necessari ad argomenti di natura saggistica. La «sintassi diventa più agile», si diradano i «relitti dell’italiano antico»: invece di «Egli è certo» scrivono «È certo»; al posto di «Né parmi» adottano «Non mi pare».
Epistolari, carte private, saggi scientifici sono documenti importanti nella storia non solo linguistica tra Ottocento e Novecento, afferma Cecilia Robustelli che ha disegnato un quadro animatissimo (qui appena riassunto) delle attività  di alcune protagoniste. Costrette dalla tradizione maschilista a ruoli subalterni, attraverso la scrittura le donne citate – note o ai più sconosciute – trovano così un modo per partecipare alla vita del Paese, purtroppo spesso escluse dalle storie della letteratura e della lingua con l’alibi della «non letterarietà » dei testi. Certi episodi, magari dettagli curiosi, sembrano irrilevanti ma esprimono significativi stati d’animo individuali e pubblici dettati da propensioni forse inconsce al maschilismo. Nel Vocabolario della lingua parlata di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani (1875) la voce «cicerona» – oggi desueta nell’accezione che segue – viene attribuita a «donna che parla molto e con facondia, e sentenziosamente». Frase campione: «la signora Emilia è una Cicerona che tiene a bada un’intera accademia». La scherzosa e un po’ sfottente allusione pare sia diretta alla Emilia Toscanelli Peruzzi che Robustelli inserisce ai vertici del suo folto catalogo.
In un contesto diverso il caso delle balie rappresenta un interessante fenomeno di interscambio linguistico. Se parlavano in dialetto qualche termine è di sicuro entrato nell’uso quotidiano delle famiglie dove l’italiano era la lingua corrente. Se il dialetto delle balie era il toscano, lavorando presso famiglie che si esprimevano in altri dialetti, l’apporto del toscano ha contribuito a diffondere il «modello base della lingua italiana». L’occasione per questo scrutinio è stato il centocinquantesimo anniversario dell’Unità  d’Italia. L’Accademia della Crusca veglia sulle sorti della nostra lingua dal 1583, e ha voluto creare una collana, insieme alla casa editrice fiorentina Le Lettere, per celebrare l’evento. Il terzo volume s’intitola appunto Italia linguistica: gli ultimi 150 anni. Nuovi soggetti, nuove voci, un nuovo immaginario, a cura di Elisabetta Benucci e Raffaella Setti, presentazione di Nicoletta Maraschio, al vertice della Crusca dal 2008, prima donna nella sua secolare storia, appena rieletta per acclamazione. Alla parte iniziale dedicata alla funzione delle donne nella fabbrica della lingua nazionale seguono nelle tre parti successive Lorenzo Coveri (Le canzoni che hanno fatto l’italiano), Peppino Ortoleva (La comunicazione di massa e la scoperta dell’Italia), Elisabetta Soletti (L’italiano in automobile), ciascuna corredata da antologia e bibliografia. Insomma, un utilissimo strumento anche per i non specialisti che offre materia di studio gradevole, e rinnova memorie ormai consumate. Non mancano indicazioni negative che mostrano in più settori un presenza femminile ancora debole rispetto alle crescenti potenzialità : fra gli autori delle 40 canzoni (1848-2011) antologizzate da Coveri ci sono soltanto due donne, Gianna Nannini e Carmen Consoli. Dopo l’incursione storiografica di Cecilia Robustelli al rapporto fra le donne e la patria lingua è dedicato un profilo istituzionale. Elisabetta Benucci si occupa infatti della presenza femminile nell’Accademia della Crusca che – nei secoli – è stata piuttosto restìa ad ammettere socie e a nominare accademiche. Per una autentica «svolta rosa», scrive Benucci, bisogna attendere gli anni Novanta e la presidenza di Giovanni Nencioni, illustre linguista.
E se al lettore piacerà  immergersi nel fiume di parole al femminile che scorre in questo volume, s’imbatterà  in segnalazioni verbali che definiscono mestieri tuttora esistenti (fornaia, bottegaia, portinaia) o quasi scomparsi (crestaja, fascettaja, carbonaja, filandaja, ciambellaja). Dottoressa e professoressa hanno vinto su dottora e professora mentre deputata ha battuto deputatessa. Ministra è termine d’uso abituale piuttosto che lo sporadico e ironico ministressa. Però non pochi preferiscono il maschile ministro. Sembra più autorevole?


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