Dickens, nostro contemporaneo

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Per celebrare il bicentenario dickensiano, Gargoyle Books ripropone l’ultimo, incompiuto, romanzo dello scrittore inglese, Il mistero di Edwin Drood, nella pregevole traduzione di Stefano Manferlotti: è un’occasione da non perdere per confrontarsi con un lavoro che non ha mai cessato di incuriosire lettori e critici: la brusca interruzione in medias res di una vicenda, causata dall’improvvisa morte dell’autore, ha infatti dato da subito l’avvio a una quantità  di illazioni. Da un lato, si sono fatte ipotesi sui possibili scioglimenti dell’intrigo; dall’altro, sulle nuove derive che il romanzo sembra offrire alla stessa narrativa dickensiana. Così, mentre dal 1870 a oggi il numero di romanzieri che hanno immaginato il prosieguo della storia è tale da avere dato origine a un peculiare sottogenere poliziesco, il cosiddetto «droodismo», la critica ha continuato a cercare, tra le righe del testo, l’ombra di un Dickens a venire. Sebbene appaia assai anziano nelle foto degli ultimi tempi, lo scrittore aveva solo cinquantotto anni quando morì. Edwin Drood, preceduto da quattro anni e mezzo di un silenzio narrativo del tutto inusuale per uno tra i romanzieri più prolifici della letteratura universale, ha, dunque, il fascino di un’opera che la morte ha impedito di terminare e, al tempo stesso, è gravato da tutti i dubbi generati dalla sua stessa incompletezza, a maggior ragione se si considera che il frammento rimasto – una metà  dell’opera pianificata, sei delle dodici dispense previste – sembra davvero indicare un cambio di rotta nella scrittura dickensiana. E se è indubbio che la trama, nei suoi momenti più appassionanti, rimanda alla narrativa sensazionale di Wilkie Collins, come se Dickens volesse superare e, addirittura, eclissare il successo della Pietra di luna (pubblicato a puntate dal 1868 su «All the Year Round», una rivista fondata dallo stesso Dickens) i toni cupi di Edwin Drood, il continuo alternarsi di luci e ombre, il gioco di doppi e di coppie antinomiche sembrano piuttosto indicare l’evolversi di una visione pessimista della società  vittoriana, che aveva cominciato a manifestarsi nella produzione dickensiana fin dalla metà  del secolo con Casa Desolata e aveva trovato la propria acme nella disillusa coralità  del Nostro comune amico, l’ultimo romanzo completato. Proprio in riferimento a questa tarda produzione, una parte della critica ha parlato di cattivo invecchiamento, di senescenza.
Ma Dickens non invecchiò male: semplicemente, smise i panni del riformista illuminato; si rese conto con sempre maggior lucidità  delle insidie celate nella compassione borghese; mise in discussione il facile manicheismo vittoriano per addentrarsi in un’indagine sempre più approfondita della mente criminale, con tutte le sue doppiezze e ambiguità . E se nel Nostro Comune Amico il male era incarnato in un insegnante apparentemente irreprensibile, nel Mistero di Edwin Drood, Dickens elabora in John Jasper la sua più complessa figura di malvagio, un maestro di musica e direttore del coro in un villaggio nei pressi di Londra. 
Oppiomane, dotato di uno sguardo inquietante che suggerisce oscuri poteri di mesmerismo, Jasper, che alla luce del giorno è una delle colonne portanti della parrocchia di Cloisterham, la notte si stordisce di droga nel silenzio della sua stanza o in orride fumerie londinesi; si occupa con affetto persino eccessivo del nipote Edwin Drood, della cui fidanzata si è tuttavia invaghito, ragione per cui cova una gelosia morbosa nei suoi confronti. Jasper è colui che, una volta scomparso misteriosamente Drood, parla per primo di omicidio e manifesta continuamente la propria volontà  di vendetta nei confronti del presunto assassino; ma probabilmente è anche, una serie di indizi lo segnala abbastanza esplicitamente, l’omicida stesso di Edwin. Non soltanto Jasper incarna l’evoluzione problematica di un personaggio ossimorico, il buon cittadino delinquente, che era particolarmente caro all’ultimo Dickens; ma sembra anche anticipare il modello per antonomasia della scissione di personalità  e della doppiezza vittoriana: il dottor Jekyll. Chi legge il frammento di Dickens non può che domandarsi a quali colpi di scena narrativi sarebbe ricorso l’autore per smascherarne la duplicità .
Nell’accurata prefazione, oltre a illuminarci sulle premesse storiche del romanzo e sulle sue fortune editoriali, Stefano Manferlotti mette in guardia contro una lettura superficiale che ridurrebbe il Drood a un romanzo poliziesco, considerando che Dickens «intendeva piuttosto dare inizio a un tipo di narrazione in cui il disseminamento degli indizi e la ricostruzione a posteriori dei fatti in unità  organica e tranquillizzante fosse ancillare rispetto a un’indagine della categoria della contraddizione vista come cifra fondamentale dell’azione umana». Lungi dall’essere, dunque, «l’opera malinconica di una mente ormai consunta», come lo definì impietosamente l’ex-amico Wilkie Collins, Il mistero di Edwin Drood indica invece alla narrativa dickensiana nuovi orizzonti, che la morte impedì all’autore di esplorare. 
Più compatto nell’intrigo dei suoi predecessori, meno convulso nei ritmi (almeno nella porzione che ci è dato leggere), il romanzo incompiuto di Dickens si segnala per una sorta di anacronistica contemporaneità  che, suggerendo con amaro umorismo la persistenza di certe situazioni e caratteri negativi al di là  del tempo e dello spazio, rimanda in maniera paradossale alla realtà  a noi più contingente. È difficile non pensare alla nostra quotidianità , per esempio, quando si legge di un paese in cui campeggia un inutile spezzone di linea ferroviaria «che avrebbe rovinato la Borsa se non fosse stato completato, la Chiesa e lo Stato se invece fosse stato completato, e certamente la Costituzione, se si fosse verificato l’uno o l’altro caso». E così come si può riconoscere il calco di qualche politico contemporaneo nell’arrogante filantropo convinto che «la guerra andava abolita, ma bisognava convertire la gente facendogli guerra» e che la concordia universale «si poteva raggiungere solo eliminando quelli che non volevano o in coscienza non potevano essere concordi», non è difficile rabbrividire di indignazione di fronte all’attualità  del razzismo di Drood nei confronti del giovane cingalese che, non a caso, sarà  accusato del suo omicidio. 
Il mistero di Edwin Drood attrae proprio per l’inesauribile fascino che gli deriva dalle sue anticipazioni; per le potenzialità  di sviluppo dell’intrigo, intrinseche al testo stesso; per le congetture sulla possibile trasformazione nella scrittura di Dickens e, da ultimo, per le sconvolgenti sorprese offerte dalla «contemporaneità » della sua narrativa.


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