«Pressioni su Conso contro il carcere duro»
ROMA — «In questi giorni, leggendo le tante cose che sono state scritte e dette sulla presunta trattativa tra Stato e Cosa Nostra, mi è tornato spesso in mente l’incontro privato che ebbi poche ore dopo le mie dimissioni da ministro di Grazia e Giustizia con il mio successore designato, Giovanni Conso».
Prosegua, onorevole Claudio Martelli.
«Conoscevo molto bene Conso: era un insigne giurista, collaborava con il mio ministero, e tra noi c’era confidenza e reciproca stima. Venne a casa mia, cercando di convincermi, chiedendomi di ripensarci e di restare al mio posto. Gli spiegai che non era possibile. Lui capì e disse, lo ricordo con nettezza, che se la mia decisione era irrevocabile, allora potevo esser certo che lui avrebbe lavorato nel mio solco, restando assolutamente coerente alle decisioni che avevo assunto».
Ma i fatti dimostrarono esattamente il contrario, a qualche centinaio di mafiosi non fu rinnovato il regime di carcere duro.
«Conso è stato estremamente coraggioso a dichiararsi unico responsabile di quella grave decisione, tuttavia a me restano dubbi forti. Intanto, appena tre giorni dopo il suo insediamento, ci fu un vertice al quale parteciparono il capo della polizia dell’epoca, Vincenzo Parisi, il responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato, e il ministro dell’Interno Nicola Mancino. So, e comunque è tutto agli atti, che Amato propose addirittura l’abrogazione del 41 bis, Parisi si disse preoccupato per lo scenario complessivo, Mancino si lamentò del fatto che detenuti in regime di 41 bis della Campania, la sua regione, fossero trasferiti in carceri speciali con l’inevitabile carico di sofferenza per i loro familiari…».
Lei, insomma, pensa che Conso non abbia deciso da solo.
«Io penso che Conso abbia deciso da solo, ma in conseguenza delle pressioni ricevute. E aggiungo una riflessione. Mentre per l’operato del Ros dei carabinieri, la Procura di Palermo sostiene che vi fu una vera “trattativa” tra Stato e mafia, quello di Conso fu un atto “unilaterale” dello Stato».
Perché?
«Secondo Conso, l’unico modo di fermare le stragi era annullare il carcere duro e mandare un segnale all’ala moderata che faceva capo a Bernardo Provenzano, il vice di Totò Riina».
Un piano che Conso avrebbe…
«Anticipo la sua domanda. No, Conso non può aver messo a punto un simile piano da solo. S’era insediato da poco tempo, era un giurista, come poteva sapere e conoscere certi equilibri di Cosa Nostra? Non aveva la più pallida idea di quale fosse l’ala moderata dell’organizzazione, per forza deve essersi consultato con qualcuno. Fu un azzardo incredibile, un errore catastrofico. I vertici di Cosa Nostra, infatti, percepirono nel gesto di Conso una straordinaria debolezza da parte dello Stato e così decisero di esportare i loro metodi libanesi fuori dalla Sicilia: provocando morti, feriti e macerie a Milano, Firenze e Roma, con l’attentato allo stadio Olimpico che, come sappiamo, non riuscì per un piccolo inconveniente».
In un’intervista al Corriere, Nicola Mancino ha detto di essere stato «usato e venduto» nella trattativa con la mafia.
«Ma usato e venduto da chi? Faccia i nomi. Leggo pure che non ricorda di essere stato avvertito dal sottoscritto di ciò che stavano combinando quelli del Ros…».
È stato categorico. «Io non mento, a me Martelli non disse nulla».
«Mi spiace, ma io gli chiesi: “Cosa stanno combinando quelli del Ros?”. Mi rispose che non ne sapeva nulla. Glielo chiesi perché avevo saputo da Liliana Ferraro, subentrata a Falcone alla direzione Affari penali del mio ministero, magistrato serissimo, di cui Falcone si fidava totalmente, che il capitano De Donno, annunciandole di aver agganciato il figlio di Ciancimino, le aveva sollecitato una “copertura investigativa”: accesso ai colloqui in carcere e, più tardi, il rilascio del passaporto di don Vito. Quando seppi questa roba del passaporto, mi girarono i santissimi e chiamai il procuratore generale di Palermo Bruno Siclari, e gli dissi: ma che razza di richieste fanno questi del Ros?».
Che idea s’è fatto, lei, onorevole, del colonnello Mori e del capitano De Donno?
«Io credo che abbiano un po’ abusato del loro potere, con dosi di autonomia spregiudicata, tipica di un investigatore quando si trova in quella terra di nessuno dove si aggancia un possibile collaboratore al quale conviene far balenare la possibilità di qualche concessione… Francamente mi sembra improbabile che un capitano e un colonnello abbiano potuto millantare di poter trattare per conto dello Stato l’abrogazione delle leggi antimafia».
(Claudio Martelli, 68 anni, ex potente leader socialista, amico personale di Giovanni Falcone, fu ministro di Grazia e Giustizia dal 1991 al 1993).
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