Schegge profetiche di una collettiva alienazione

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La stesura del polimetro diviso in tre sezioni, alla maniera di una grande suite, porta in calce due date, settembre ’54 e agosto ’57, che lo situano tra il compimento della Ricostruzione e l’incipiente Miracolo economico. Si tratta di una sequenza narrativa che non è improprio definire un romanzo se l’autore in persona, a distanza di decenni vorrà  collocarlo all’ingresso del volume intitolato I romanzi in versi (Mondadori, «Oscar», 1997) insieme con La ballata di Rudi che suggella il primo tempo della sua poesia. 
L’orizzonte d’attesa è Milano tra via Ripamonti, con le case di ringhiera, e gli uffici del centro dove viene compiendosi a passo deragliante il processo di modernizzazione che presto avrà  nome di neocapitalismo. La Milano brumosa di De Marchi e Bertolazzi è di colpo cancellata, pari a quella che Boccioni e Marinetti vedevano pervasa da un furore elettrico: «Colpisci, vita ferro città  pedagogia», dice qui un verso che vale un rettifilo di destini travolti, la massa di esistenze rese subalterne al ciclo di produzione e consumo, già  fungibili alle logiche del plusvalore. Pagliarani non guarda ai suburbi e alle Coree (sacche di sfiuto e perpetua riserva di cui diranno i palinsesti sociologici di Raniero Panzieri e Danilo Montaldi o, per altra via,i romanzi di Volponi e Balestrini) ma va diritto a quella primitiva condizione, che oggi è viceversa classe generale, in cui il proletariato si disfa eppure non diviene borghesia se non nei contrassegni (un vestito, un rossetto, il biglietto per il cinema o il calcio) del proprio sostanziale asservimento. 
Portavoce è una ragazza di diciassette anni, apprendista dattilografa, Carla Dondi fu Ambrogio, una giovane donna che in realtà  nemmeno può permettersi di dire «io». Pagliarani ne insegue la Bildung e scandisce le tappe di una delusione che duplica, per contraccolpo psicologico, il processo di collettiva alienazione. Il cielo d’acciaio di Milano, scrive il poeta, non finge l’Eden mentre il vissuto di Carla adolescente noi lo vediamo frantumarsi e via via depauperarsi in schegge di similvita e in soprassalti della carne, oppure in velleità  bovaristiche la cui massima posta è l’anonimato piccolo-borghese e dunque la condizione muta, inerte, di chi tutto ha ormai accettato e nulla ha più da chiedere se non di vedere protetta la condizione di normalità  da parte dei medesimi agenti sociali che l’hanno umiliata. Infine, la verità  di Carla è nel collage della sua vita andata in pezzi, i cui segmenti Pagliarani dispone sulla pagina per antitesi ed effetti stranianti (come ci hanno insegnato, peraltro, i suoi critici maggiori, da Walter Pedullà  a Fausto Curi, da Guido Guglielmi a Walter Siti, autore di un libro dal titolo premonitorio, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi 1973). 
L’ultima a parlare infatti non è Carla ma la voce del poeta fuoricampo: Quanto di morte noi circonda e quanto/ tocca mutarne in vita per esistere… Mai versi classici come questi endecasillabi seppero dire con tanta nitidezza l’arcano dell’economia politica che converte il valore d’uso in valore di scambio: come fossero incisi a futura memoria, essi sono dedicati a una ragazza che fu viva solo per essere immolata alla forza che oggi più di ieri decide delle nostre esistenze.


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