ELIO PAGLIARANI, ADDIO AL POETA CHE CANTAVA LA VITA “OPERAIA”

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Era un gran buon caratteraccio quello di Elio Pagliarani, morto ieri a Roma all’età  di 84 anni, per riconoscimento unanime: facile agli entusiasmi, generosissimo negli slanci, affettuoso nelle amicizie; ma anche pronto all’irritazione, alla rispostaccia, alla ribellione di fronte alla pur minima infrazione del suo codice etico. E in questo era implacabile. Critico teatrale tra i più acuti e intelligenti che abbiamo mai avuto, se uno spettacolo non gli piaceva, recensiva su Paese Sera le difficoltà  che aveva incontrato per parcheggiare, l’umidità  della sala, l’aspetto dei suoi vicini di posto e talora le chiacchiere scambiate con loro; e poi, nelle ultime due o tre righe, la staffilata su quanto aveva visto in scena, sempre precisa e senza appello.
Ma Pagliarani era soprattutto un poeta, un grande poeta. E la sua grande poesia gli somigliava in modo impressionante, fin dall’inizio: forse mai una coincidenza fra l’uomo e i suoi versi fu così perfetta. Sebbene abbia attraversato da consapevole protagonista le zone più impervie della neoavanguardia italiana, è sempre rimasto fedele alla ricerca e all’espressione di un significato forte; e nelle stimmate di quel significato, si rispecchiavano le aperture arrese al pianeta degli affetti e le dure, lucide, ma commosse analisi imposte dall’impegno etico e civile.
Un “canto” tendenzialmente realistico e oggettivo si affaccia nella raccolta d’esordio, Cronache (1954), che trova il suo alveo nella Milano operaia, da lui ben conosciuta prima come insegnante nelle scuole serali della città  (vi si era trasferito da Viserba Rimini, dove era nato nel 1927, dopo la laurea in Scienze politiche conseguita a Padova), e poi come redattore dell’Avanti!. Ma da quella stessa Milano si sviluppa con Inventario privato (1959) il “controcanto” di un canzoniere d’amore, in cui i luoghi urbani vanno a segnare il gioco dei sentimenti e delle passioni, mai separati dal contesto sociale in cui si generano. 
Due tensioni differenti si rivelano fin dall’inizio la marca distintiva della poesia di Pagliarani, non a caso compresenti e straordinariamente fuse nel suo primo capolavoro, il poemetto La ragazza Carla, uscito nel 1960 sulla rivista Il Menabò, e poi raccolto in volume per Mondadori con i due libri precedenti, nel 1962 (La ragazza Carla e altre poesie). Arrivarono insieme, grazie al poemetto, il riconoscimento della grande editoria e la consacrazione neoavanguardistica, in quella prima uscita pubblica cui sarebbe seguita la fondazione del Gruppo 63. 
La ragazza Carla fu un sasso nello stagno: se è vero che le sue radici erano ben chiare (Officina e dintorni), è anche vero che il poemetto faceva esplodere una fortissima carica di novità , soprattutto nel cospicuo incremento, rispetto all’imprinting officinesco, di frequenza delle contaminazioni linguistiche e di registro espressivo. È poesia-racconto che narra le vicende di una giovane dattilografa milanese la quale – alla vigilia delle elezioni del 1948 – sperimenta, insieme alle molestie sessuali del suo principale, l’alienazione e il dominio di classe. Ma la scrittura poetica, in sé perfettamente risolta nelle larghe cadenze di un’epica sommessa, si apre continuamente ad accogliere inserti di materiali verbali “altri”, provenienti magari da un manuale di dattilografia, o da un trattato di diritto internazionale, o dal gergo degli ordini di pagamento, con un uso non avaro di lingue straniere, francese e inglese. E al registro tendenzialmente “basso”, che fa da piattaforma all’intera opera, si affiancano e si mescolano stili diversi, capaci di reintegrare tanto la tensione lirica quanto quella meditativa, fino a raggiungere una solennità  quasi leopardiana nel “corale” conclusivo.
Ma il sigillo inconfondibile della grande poesia è dato nel poemetto dal calore umano che il soggetto scrivente trasfonde senza troppo apparire ai contenuti, e che a fine lettura ti lascia un misto di indignazione e commozione impossibile da dimenticare. Lo stesso sigillo si palesa in Lezione di fisica e Fecaloro (1968). È sicuramente la sua raccolta più sperimentale, la più integrata nelle norme espressive della neoavanguardia. Il plurilinguismo si fa qui vertiginoso, nel suo attingere ad ogni possibile gergo scientifico, dalla fisica alla matematica all’economia al diritto; eppure si riconverte a un ineliminabile sottofondo lirico, nutrito di ritmi pur sempre riconoscibili, e anzi imperativi. Nel 1966, in un articolo su Nuova Corrente, Pagliarani assegnava alla poesia due compiti ben precisi: «contestazione di significati precostituiti e usurati dalla langue, e progettazione di nuovi significati», nella convinzione che «l’opposizione è una modalità , non una finalità ». Ora, in Lezione di fisica e Fecaloro, quei compiti sembrano consistere nel reperire «oggetti e argomenti per una disperazione», come suona il titolo di una delle più belle liriche della raccolta; e dal contrappunto fra il pathos dell’emotività  e il distacco tutto intellettuale della tecnica compositiva si determina una misura espressiva perfettamente coesa, insieme elusiva e diretta, che è certo fra le esperienze di scrittura più innovative del secondo Novecento.
Quando la raccolta esce, appunto nel ’68 da Feltrinelli, Pagliarani sta già  lavorando a un progetto molto più vasto, nel quale l’istanza narrativa della Ragazza Carla, assai attenuata in Lezione di fisica, torna potente e di sicuro amplificata. Si tratta de La ballata di Rudi, vero e proprio “romanzo in versi” che vedrà  la luce da Marsilio, dopo una gestazione quasi trentennale, soltanto nel 1995. Alla Ballata Elio lavorò con lunghe interruzioni e improvvise accensioni, e anche con in mezzo operine nelle quali sembrava voler mantenere in esercizio il repertorio sperimentale della sua poesia. Funzioni metaletterarie e tecnica del montaggio tengono esclusivamente il campo tanto negli Esercizi platonici (1985) che negli Epigrammi ferraresi (1987). Ma intanto veniva costruendo una grandiosa metafora della storia d’Italia nella seconda metà  del Novecento, col poeta che per questa via laterale e impervia finiva per ritrovare il coraggio e l’orgoglio di parlare a nome di tutti.


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