Come fare a pezzi il lavoro

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MADRID – Oggi la Camera dei deputati convalida il decreto di «riforma» del mercato del lavoro, contro il quale sindacati, movimenti e partiti di sinistra hanno riempito le piazze in tutta la Spagna lo scorso 19 febbraio. Non c’è da attendersi nessuna sorpresa, dal momento che il Partido Popular (Pp) gode di un’ampia maggioranza assoluta, alla quale si sommeranno i deputati della formazione nazionalista catalana Convèrgencia i Unià³ (CiU), che condivide la filosofia neoliberista del governo di Mariano Rajoy. Con il voto di oggi, tuttavia, non si scrive ancora l’ultimo atto. Si apre, infatti, un periodo di un mese durante il quale il Parlamento potrà  apportare modifiche al provvedimento, prima della sua approvazione definitiva: il decreto governativo, quindi, potrebbe cambiare, almeno in linea di principio. Ma l’intenzione del Pp è chiara: saranno ammessi solo piccoli ritocchi per venire incontro alle richieste dei nazionalisti catalani di CiU, senza «cedere» alle pressioni delle organizzazioni dei lavoratori. I licenziamenti facili e la demolizione della contrattazione collettiva resteranno.
Rajoy ha voluto ribadirlo anche ieri, durante la «sessione di controllo al governo» alla Camera. Rispondendo all’intervento del leader del Partito socialista (Psoe) Alfredo Pérez Rubalcaba, che gli chiedeva di negoziare con le parti sociali, il premier ha difeso la scelta di chiudere al dialogo, non facendosi mancare una frecciata all’avversario: «Anche voi approvaste nel 2010 una riforma del mercato del lavoro senza il consenso dei sindacati, che per questa ragione proclamarono lo sciopero generale». Non ha tutti i torti, ma la differenza con la situazione di due anni fa sta nel fatto che l’esecutivo socialista cercò l’accordo, mentre ora quello conservatore agisce come se i sindacati (e i lavoratori che manifestano) non esistessero.
La determinazione che Rajoy esibisce nell’ignorare le proteste può servirgli come arma negoziale nei confronti delle autorità  europee. Perché l’altra partita aperta riguarda la legge finanziaria, che il governo deve presentare entro fine marzo. Secondo gli accordi vigenti, stipulati con la Commissione europea quando il premier era ancora il socialista José Luis Rodrà­guez Zapatero, la Spagna nel 2012 non potrebbe avere un deficit maggiore del 4,4% in rapporto al Pil. L’attuale situazione economica, con la recessione in atto e il disavanzo superiore all’8%, rende totalmente irrealistico il raggiungimento di tale obbiettivo e Rajoy ha fatto sapere che la manovra mirerà  a contenere il rapporto deficitPil al 5,8%. Ma da Bruxelles il commissario Olli Rehn ha mostrato il proprio disaccordo, minacciando velatamente la Spagna di aprire la procedura d’infrazione. Una posizione dura, che potrebbe tuttavia ammorbidirsi, proprio in virtù dell’obbedienza del governo di Madrid nel «fare i compiti» che le stesse autorità  comunitarie gli hanno assegnato in materia di «riforma» del mercato del lavoro.
In ogni caso, comunque finisca il braccio di ferro (almeno apparente) fra la Commissione e l’esecutivo spagnolo, la finanziaria si annuncia pesantissima. Il ministro dell’economia (ex Lehman Brothers) Luis de Guindos ha riconosciuto ieri, intervenendo alla Camera, che la spesa pubblica diminuirà  sensibilmente. L’austerità  impegnerà  tutti: amministrazione centrale e autonomie locali. Ed è facile prevedere che la situazione di sotto-finanziamento del sistema educativo e di quello sanitario, che gli studenti e gli operatori della sanità  stanno da tempo denunciando con numerose mobilitazioni in tutto il Paese, non potrà  che peggiorare.


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