Chi ha paura della psicoanalisi

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Da diverso tempo si insiste nel voler riporre la psicoanalisi come teoria dell’uomo e come pratica della cura nel museo delle cere dell’Ottocento denunciando senza peli sulla lingua l’impostura del suo padre fondatore. Freud stesso fu il bersaglio di pesanti diffamazioni e non gli sfuggiva affatto che questi attacchi erano la diretta conseguenza del fatto che con la sua invenzione aveva portato la “peste” nella cultura e nella società  occidentali. 
Quale “peste”? La peste di una disciplina che dà  parola a ciò che solitamente viene confinato, esiliato, rimosso dalla nostra esperienza comune del mondo: alla dimensione singolare e irripetibile del desiderio, alla sua forza sovversiva, a ciò che sfugge al governo della coscienza, a ciò che ci parla in una lingua straniera (nei sogni come nei nostri sintomi), alla fragilità  delle nostre certezze, prima fra tutte quella di crederci degli Io solidi e compatti. 
Recentemente, in un articolo di qualche settimana fa apparso sul Sole 24 Ore, titolato emblematicamente L’autismo dei lacaniani, Gilberto Corbellini si era fatto interprete di un nuovo attacco rivolto alla psicoanalisi in generale e a quella lacaniana in particolare. Quale l’accusa? Niente di meno di quella di abuso di professione: non avete i mezzi per curare l’autismo! Le vostre teorie sono bislacche e, soprattutto, non curano! In un altro articolo più recente, apparso domenica scorsa sempre sulle pagine del Sole 24 Ore, Lacan viene definito senza mezze misure un “impostore”, attraverso il ritratto (forse un po’ semplificato?) che ne offriva Alan Sokal.
Strano modo di procedere quello di Corbellini; invoca la serietà  dello spirito scientifico, la necessità  per la psicoanalisi di sottoporsi alla prova e al rigore della valutazione, ma per liquidare Lacan come un impostore, egli si limita ad invocare un solo studio che evidenzia certe incongruenze nell’uso che Lacan ha fatto degli strumenti della topologia di fronte ad una bibliografia immensa ed in continua crescita dedicata alla sua opera. 
In gioco, beninteso, non è solo la clinica dell’autismo (che è stato il movente di questo recente attacco); si tratta, più radicalmente, della proscrizione della psicoanalisi come possibilità  di cura. Un esercito composito sembra esigerlo: la psicologia cosiddetta scientifica, le terapie cognitivo-comportamentali, l’industria dello psicofarmaco, la deriva iperpositivista delle neuroscienze, la psichiatria organicista, e, soprattutto, il “discorso del capitalista” che esige terapie le più brevi ed efficaci possibili per ripristinare il funzionamento dei suoi consumatori. 
In risposta a questa ennesima aggressione quattro autorevoli psicoanalisti – rappresentanti delle correnti maggiori della psicoanalisi contemporanea – hanno firmato un testo a sostegno della nostra disciplina (come è accaduto su Repubblica il 22 febbraio scorso), definita giustamente a “statuto speciale”. Non si tratta dell’invocazione di una specie di riserva indiana dove gli psicoanalisti – incapaci di dimostrare l’efficacia dei loro mezzi di fronte al rigore della validazione scientifica –, chiederebbero, alla pari di “omeopati, astrologhi, erboristi, eccetera”, diritto di cittadinanza (Corbellini dixit). Questo Manifesto rivendica qualcosa di assai più profondo. La psicoanalisi è una scienza e una pratica a statuto speciale perché vuole essere una cura del soggetto nella sua particolarità . La cura offerta della psicoanalisi non è una cura tra le altre.
La cura psicoanalitica non è finalizzata ad aggiustare la macchina del corpo o del pensiero come avviene nella cura medica tradizionale. Nei sintomi in gioco non è un semplice disfunzionamento della macchina del corpo o del pensiero, ma la verità  scabrosa, infima, bizzarra, deviante del desiderio inconscio del soggetto. Lo psicoanalista accoglie innanzitutto la parola del soggetto senza censure, senza pregiudizi o giudizi morali, senza aspettative, senza pretese normalizzanti, e, soprattutto, senza imporre ad essa la propria.
Dove si trova oggi qualcosa del genere? Il beneficio terapeutico di una cura analitica avviene solo in “sovrappiù”, come si esprimeva Lacan, a questo riconoscimento del valore della parola del soggetto dell’inconscio. Non è già  solo questo principio di fondo sufficiente per distinguere la cura psicoanalitica da qualunque altra forma di cura dove il curante tende fatalmente a porsi come padrone di un sapere già  costituito che verrà  applicato al paziente secondo schemi oggi sempre più protocollari? Dove ciò che cura è spesso il potere suggestivo di un padrone? Non è questo principio sufficiente a mostrare come la cura psicoanalitica sia ispirata dall’esigenza etica di assegnare il massimo valore alla singolarità  non-protocollare del soggetto? Non è questa forse una cura a statuto speciale? In questo senso la psicoanalisi agisce come un potente anticorpo nei confronti di quella medicalizzazione della vita di cui il nostro tempo ha fatto un nuovo e pericoloso idolo. 
E con i bambini autistici? E con i casi gravi, con le anoressiche, con i tossicomani, con gli psicotici? Dobbiamo immaginare questi pazienti allungati sul divano a raccontare i loro sogni? Non scherziamo. Da tempo la psicoanalisi con i casi gravi avviene in un setting totalmente adattato alle esigenze di questi pazienti; si lavora negli ospedali, nelle istituzioni della salute mentale, nelle comunità  terapeutiche, si lavora senza divano. A coloro che vogliono capire meglio cosa può fare la psicoanalisi per aiutare i bambini autistici – non a guarire dall’autismo, ma a trovare un loro modo per esprimere quella singolarità  assoluta (non handicappata) che li costituisce come umani – invito a leggere una raccolta di scritti di analisti lacaniani con una lunghissima esperienza di cura dell’autismo: Qualcosa da dire al bambino autistico (Borla, 2011). 
Certamente gli psicoanalisti non sono affatto estranei al rischio del loro declino e della loro emarginazione culturale. L’arroccamento nelle loro stanze ovattate, la pretesa di possedere una interpretazione totale dell’individuo e del mondo, l’irrigidimento dottrinale in scolastiche dogmatiche, il disprezzo aristocratico verso tutto ciò che non è psicoanalisi, o, ancora peggio, verso tutto ciò che non appartiene alla propria Scuola, la burocratizzazione della professione attraverso apparati istituzionali finalizzati a conservare il “già  detto” più che alimentare la ricerca verso il nuovo, la formazione degli allievi ridotta ad indottrinamento, la difesa dei privilegi di casta (non aveva ragione Basaglia quando accusava la psicoanalisi di essere una terapia di classe?), la tendenza a sottovalutare l’impatto col reale dei processi storici ed economici, l’uso regressivo e ipnotico del transfert, un certo fanatismo nell’applicazione della teoria a casi gravi che richiedono una attenzione e una consapevolezza dei propri limiti diversa… 
Tutto questo ha pesato e pesa sullo sviluppo di una disciplina sorta come una straordinaria difesa del carattere singolare e laico del desiderio che però ha spesso prodotto dogmatismi sulla soglia dei più feroci fondamentalismi! È un fatto che appartiene alla storia anche recente della psicoanalisi: come si spiega? Potrebbe essere che la psicoanalisi debba innanzitutto liberarsi da un suo fantasma di cui la tirannide del Maestro o il grigiore della burocrazia degli apparati rappresentano i poli diametralmente opposti. Questo sarebbe un tema serio di ricerca.


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