Le celebrazioni non bastano

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Che cosa c’è da festeggiare? I femminicidi continuano ad insanguinare le zone più oscure dei rapporti tra gli uomini e le donne. Le giovani donne continuano a fare più fatica dei loro coetanei a stare nel mercato del lavoro in un contesto che è peggiorato anche per questi ultimi. Le lavoratrici con responsabilità  familiari lavorano il doppio dei loro compagni, ma guadagnano di meno. La crisi economica di questi anni e le manovre finanziarie dell’ultimo anno gravano in modo sproporzionato sulle donne, come lavoratrici e come principali responsabili del lavoro familiare. Le donne sono viste innalzare di colpo di qualche anno l’età  alla pensione, senza che sia aumentata la loro sicurezza sul mercato del lavoro, al contrario. Contemporaneamente si sono viste ridurre fortemente i servizi di cura (per i bambini, le persone non autosufficienti) ed aumentarne il costo. La tenuta di molti bilanci familiari erosi dalla riduzione della occupazione si basa sulla loro capacità  e disponibilità  ad intensificare il lavoro domestico. Nonostante la presenza di, poche, “tecniche” nel governo l’asimmetria di genere dei costi della crisi sembra accentuata dalle scelte governative. Non va meglio a livello di Unione Europea, al contrario. Con la sua ossessione per il pareggio di bilancio, la UE sembra aver perso il ruolo di importante sostenitore alle richieste di parità  e di politiche, anche sociali, necessarie a questo scopo. 
Nulla da festeggiare o celebrare, quindi. Piuttosto un ritorno alle origini del senso della giornata dell’8 marzo ed insieme una occasione per ridefinirla. Una giornata non solo di protesta e di bilanci, ma di discussione di una possibile agenda politica ed economica che, prendendo atto della situazione attuale e dei suoi vincoli, proponga alternative realistiche. Ad esempio, diverse economiste e sociologhe hanno formulato una proposta di “pink new deal”, che mostra come l’investimento in servizi e infrastrutture sociali (ma io aggiungo anche in ambiente) non aiuterebbe solo le donne, ma potrebbe costituire un volano per l’economia più importante, e più tempestivo rispetto alla necessità  di creare occupazione, delle grandi opere. Come la stragrande maggioranza degli economisti a livello internazionale (anche se non quelli che siedono al governo italiano e che dettano le decisioni nella Unione Europea), queste “tecniche” segnalano soprattutto come un eccesso di misure di austerità  non solo metta fine alla solidarietà  che è stata alla base della costruzione dell’Unione Europea. Può anche uccidere sul nascere ogni possibilità  di ripresa – come sta avvenendo per la Grecia. 
Un 8 marzo, quindi, per (ri-)cominciare a discutere in pubblico e per proporsi come soggetto pubblico di cui tenere conto. Per rafforzare e continuare la costruzione di un soggetto pubblico femminile. Un soggetto che non abbia la pretesa di rappresentare tutte le donne e di parlare a nome di tutte le donne, ma che si assuma la responsabilità  di articolare proposte a partire da una prospettiva che tenga conto in modo esplicito dell’esperienza, variegata, delle donne e dell’impatto sulla loro vita delle decisioni che si prendono. Che si prenda la responsabilità  di proporsi come interlocutore nella scena pubblica e nella definizione della agenda pubblica: cercando il dialogo, ma senza temere il conflitto e di disturbare il manovratore.
Un 8 marzo non per festeggiare le donne o parlare di loro, ma per impegnarsi perché le loro proposte entrino nell’agenda pubblica. Perché è urgente disturbare il manovratore prima che il treno deragli.


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