Un mesto spartito per atenei a bassa qualità 

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Con una parodia del linguaggio importato nella strutturazione dei corsi, o nella valutazione bibliometrica della ricerca, possiamo dire che il «format» del prodotto accademico mira a rinsaldare la filiera del lavoro padronale, sottopagato, servile. Come sempre, l’università  è lo specchio della società  in cui vive, e affonda. Diamo un supporto informativo a queste considerazioni che, sempre più spesso si ascoltano tra chi lavora nell’università  con un minimo spirito critico. Leggiamo il libro che Francesco Coniglione, docente di storia della filosofia a Catania, uno degli animatori del sito-rivista Roars.it, irrinunciabile lettura quotidiana per chi vuole sul serio riformare l’università  italiana.
In Maledetta università  (Di Girolamo, pp. 155, euro 9,90) Coniglione dimostra con accuratezza statistica e pazienza metodologica, come l’università  di massa incentrata sul concetto di istruzione pubblica sia stata trasformata in un ente formativo-professionalizzante, che mira a scalzare la vecchia idea della «formazione professionale» o dell’«apprendistato» di un mestiere con il linguaggio chic del management professorale al governo (ogni riferimento alla «riforma» Fornero è puramente casuale). 
Questa analisi impietosa contempla anche un paradosso tutto italiano: le riforme che dal 1989 ad oggi, cioè dalla legge «Ruberti» alla «Gelmini», hanno ridotto l’università  ad uno spartito per commercialisti sono state accompagnate da un progressivo e inarrestabile taglio di fondi all’intero settore della formazione, della conoscenza e della ricerca. I fondi investiti dal Miur sono infatti il 19,3% di quello che negli Stati Uniti riceve la sola università  di Harvard. La scuola, invece, riceve meno risorse rispetto a tutti gli altri paesi Ocse. Leggere per credere. Il combinato disposto tra i tagli, e l’implosione di un sistema che è ultimo nella speciale classifica dei laureati, e perde 43 mila iscritti all’anno dal 2003, ha creato una “crisi cognitiva” che si riflette perfettamente nel «dibattito» (si fa per dire) sul mercato del lavoro. Al termine all’agonia della «società  della conoscenza», quella presente nelle retoriche dominanti, non quella che vive nel capitalismo informazionale che ci governa, destra e sinistra hanno perso ogni considerazione sull’importanza, e la civiltà , della formazione complessiva delle intelligenze. 
Questo avviene perché l’istruzione, e soprattutto l’auto-formazione, è da sempre servita a difendersi dal ricatto del «mercato del lavoro», oltre che dalla violenza sociale diffusa. Se la scuola e l’università  moderne hanno avuto un senso, è stato questo. Da vent’anni provano a distruggerlo, offenderlo, occultarlo. Forse non è ancora troppo tardi per dire che quel filo può essere ripreso. Ci sarebbe da augurarselo, con l’autore di questo libro, ma l’università  non è più il luogo della resistenza, e tanto meno dell’innovazione sociale. Ammesso che lo sia mai stato, oggi è giunto il momento di guardare altrove.


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