Riflessioni sulla differenza di genere, colorate di noir

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Comincia come una storia d’amore qualsiasi la discesa agli inferi dell’animo maschile e femminile raccontata nel Bambino indaco (Einaudi 2012, pp. 132, euro 16), il nuovo romanzo di Marco Franzoso, già  autore di tre prove narrative – Westwood dee-jay (Baldini & Castoldi), Edisol-M. Water Solubile (Marsilio 2002) e Tu non sai cos’è l’amore (Marsilio 2006) – , nonché curatore, sempre per Marsilio e a quattro mani con Romolo Bugaro, delle antologie I nuovi sentimenti (2006) e Ragazze del Nordest (2010). Esperimento, quest’ultimo, abbastanza insolito nel panorama narrativo italiano di docufiction letteraria, racconti elaborati a partire da interviste a giovani donne tra i venti e i trent’anni «intorno al più semplice e impegnativo dei temi: come sta procedendo la tua vita? secondo le attese o meno? e per quali motivi?».
A volerla guardare da questa stessa prospettiva, all’inizio del romanzo di Franzoso la vita del protagonista, Carlo, un trentaseienne padovano socio di una piccola agenzia di comunicazione, procede senza scossoni, o potremmo anche dire, non procede, stando a quanto dichiara la voce narrante in prima persona: «…Non riponevo grandi aspettative nei confronti della vita e sentivo che era giusto così, perché nemmeno la vita sembrava riporre grandi aspettative su di me». Non è depressione latente, quella di Carlo, piuttosto un fluire anonimo e a suo modo felice: «In giro, poi, c’erano un sacco di opportunità . Gli amici, le ragazze. Era tutto a disposizione e io non mi tiravo indietro». 
A cambiare radicalmente le cose, complice un appuntamento al buio organizzato da una comune amica, è l’incontro con Isabel, una ragazza svizzera che lavora nella vicina Treviso. L’amore tra i due nasce scevro di complicazioni e sembra portare senza intoppi, in un percorso tradizionale, alla convivenza, a una gravidanza e al matrimonio. 
Vegetariana, anticonformista, colta, Isabel è profondamente affascinata dall’universo new age, ma quella che all’inizio del romanzo appare come una caratteristica tra tante, un «tratto culturale», prende in fretta forme decisamente inquietanti. Isabel, infatti, si convince di essere in attesa, appunto, di un «bambino indaco» – una creatura spiritualmente superiore, in grado di sopravvivere senza necessità  di ingerire alimenti contaminati – e dall’età  dello svezzamento in poi rifiuta di dare da mangiare al figlio. La situazione degenera rapidamente, fino a conseguenze tragiche, su cui la narrazione di Franzoso si apre. L’impossibilità  di conoscersi veramente nella coppia, tra persone che dovrebbero avere instaurato il più profondo rapporto di intimità , è uno dei temi dominanti del romanzo, e sembra coincidere, dal punto di vista del narratore, con una sostanziale estraneità  del maschile rispetto al femminile, trattati come sostanze reciprocamente irriducibili: «Chi sei?, chiedo silenziosamente guardando la sagoma del corpo di mia moglie, a pochi metri da me. Qual è il tuo segreto? Da dove arrivi? Perché non ti conosco? (…) Perché so davvero così poco di te? Ho vissuto e preso le decisioni più importanti della mia vita con una sconosciuta».
Il mutamento repentino che trascina nella follia la madre del Bambino indaco ci viene presentato senza causa dichiarata, come una possessione demoniaca – o aliena, nei codici condivisi della contemporaneità  – che si instaura contemporaneamente alla gravidanza e forse, sospetta il lettore nei territori dell’implicito, in ragione di essa. Quelle che sono inquietudini manifeste del nostro tempo – la tentazione dell’ortoressia davanti all’apparente impossibilità  di recuperare un rapporto immediato col mondo naturale, l’onnipresenza della chimica nei prodotti di uso quotidiano, dall’igiene all’alimentazione, con gli impliciti pericoli, avvolti spesso in una nube di informazione incompleta, o allarmistica o manipolata – si condensano nel personaggio Isabel in un precipitato potentissimo e oscuro. L’equivalenza instaurata dal pensiero tradizionale tra femminile e natura, messa in discussione da tanta riflessione sulla differenza, cambia qui di segno colorandosi di nero come nel negativo di una fotografia analogica. 
E di fronte alla determinazione disumana – aliena anch’essa – che sembra possedere il femminile dei personaggi di Franzoso, il maschile appare senza forze, incapace di reagire, di lasciare un segno nel mondo. Intorno al protagonista immobile si muove un coro di donne – le amiche di Isabel, l’avvocato Sara, l’assistente sociale a cui a un certo punto si rivolge la coppia -, mentre assenti appaiono altre possibili figure di uomo: il padre di Carlo, morto da anni, il fratello medico lontano, negli Stati Uniti. E non sarà  infatti Carlo, ma sua madre Livia – anche lei, in rapporto speculare rispetto a Isabel, un personaggio sotto il segno del naturale – che viene da una famiglia contadina, che durante la guerra ha battuto «i boschi sui colli alla ricerca di frutti selvatici» a incaricarsi del «lavoro duro», a comprendere che è in corso una guerra e, con «la praticità  quasi primordiale della donna che deve pensare alla sopravvivenza dei figli e della discendenza», a combatterla fino all’ultimo. 
Conclusa la storia nel sangue, la vita di Carlo riprende come «un indistinto fluire di eventi», fino a confluire nel «luogo in cui risentimento e gratitudine diventano la stessa cosa».


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