SERGIO’S CHOICE
Colpi che vogliono stendere. Il presidente della Bce dice alla bibbia del liberismo che il modello sociale europeo di garanzie per i più deboli è superato, l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler rivendica di aver già fatto quel che per cui Draghi spinge. Tempo fa, Time paragonò il manager italiano a Steve Jobs, ma il verbo dell’uomo di Cupertino è stato l’opposto dell’operato di Marchionne: «La cura per Apple non è il taglio dei costi. La cura per Apple è innovare uscendo fuori dal predicato».
Con il Corriere della sera, Marchionne non parla dei tre operai della Fiom reintegrati al lavoro a Melfi. Che oggi la Fiat vuole lasciare a casa, nonostante la sentenza del tribunale. Un’arroganza che si copre di ridicolo alla Magneti Marelli (gruppo Fiat) di Bologna, dove viene espulsa perfino la bacheca dell’Unità .
Nell’intervista, Marchionne raddoppia: adesso a rischio chiusura sono due fabbriche italiane, non più una. Nomi non ne fa, nascondendosi dietro la finzione cinematografica di “Sophie’s choice”, dove una madre sceglie sotto minaccia di un nazista quale dei due figli deve mandare a morire, per non perderli entrambi. Una metafora di pessimo gusto.
Per non chiudere queste due fabbriche, dice il manager, l’unica strada per la Fiat è esportare (grazie all’accordo con Chrysler) negli Stati Uniti, un mercato tornato a tirare al contrario di quello europeo. L’idea è ambiziosa, peccato che il sindacato statunitense Uaw abbia già bloccato la produzione di una Jeep a Mirafiori, riportandola a casa.
Se andasse male, «dovremmo ritirarci da 2 dei 5 siti in attività ». Uno è Mirafiori, l’altro probabilmente Cassino, essendo la fabbrica dove si costruiscono modelli di segmento C ormai prodotti dal gruppo anche a Belvidere, in Illinois. In realtà , Marchionne da quasi tre anni chiede che in tutta Europa si faccia come negli Stati Uniti per affrontare la sovracapacità produttiva di cui gli operai, anche se diventassero flessibili come elastici, non hanno colpa: chiudere fabbriche per tagliare i costi. Come è già successo a Termini Imerese in Sicilia per Fiat, ad Anversa per Gm, a Born in Olanda per Mitsubishi, e come vorrebbero fare ancora Opel e Peugeot-Citroen (e lui, naturalmente) se non ci fossero l’opposizione dei sindacati, le garanzie sociali che Draghi ritiene superate, le paure dell’urna a Parigi come a Berlino.
Nell’intervista al Corsera, Marchionne ammette di avere in casa Fiat un debito di quasi 27 miliardi, incalzato da Massimo Mucchetti, giornalista con l’occhio lungo nel leggere i bilanci. Ma è bizzarro che un manager del suo livello di estrazione finanziaria confermi di tenere sotto il materasso 20 miliardi di liquidità perché – dice – non si fida dei mercati: «E’ la nostra polizza contro un credit crunch, il suo costo è il premio assicurativo». Ben 700 milioni di interessi all’anno, rivela: è come avere in tasca il denaro per comprarsi una casa e buttarne invece per l’afffitto.
Viene il sospetto che Marchionne preferisca passare per suo nonno e non dire che tanti soldi potrebbero servire ad altro. Per esempio, a imbarcare un terzo polo automobilistico nell’alleanza, con il quale sbarcare finalmente in Asia da cui il gruppo è pericolosamente assente e condividere oneri di sviluppo per i modelli più piccoli, quelli destinati a essere prodotti nelle fabbriche italiane. Il messaggio comunque c’è: nell’intervista, ricorda che gli Agnelli-Elkann sono pronti a diluire la loro quota.
Per una volta, Marchionne non usa asprezze, ha il tono di chi cerca consenso. Lancia un appello al governo, chiedendo un «regista» per una politica industriale che non c’è. E in effetti sarebbe più che mai necessaria, dato che Marchionne prevede per i lavoratori italiani – se va bene – un futuro da messicani d’Europa: a lavorare per l’export. Più che da amministratore delegato, parla da politico, ci chiediamo se attratto su questo terreno in modo speculare dalla Fiom e dal suo segretario Maurizio Landini che, dice il manager, sta «facendo una battaglia politica». Marchionne dà i voti, «Landini è più rigido del suo predecessore Gianni Rinaldini», senza dire ovviamente che Marchionne 1 – quello del salvataggio della Fiat operato anche in accordo con tuttti i sindacati e i lavoratori del gruppo tra il 2004 e il 2008 – non è il Marchionne 2 della fine del contratto nazionale. Il manager racconta di «incontri riservati con esponenti della Fiom, la sinistra più intelligente ha provato a ricucire», ma senza esito. Ce ne è anche per Susanna Camusso: «Si ragionava di più con Epifani, forse (lei) parla troppo della Fiat e di Marchionne sui media e troppo poco con noi». Ci suggerisce Giorgio Airaudo, responsabile auto del sindacato dei metalmeccanici della Cgil: «In queste ricostruzioni dei rapporti con la Fiom e su quelli fra Fiom e Cgil, ho l’impressione che Marchionne non sia stato molto ben consigliato». Eppoi anche in America Marchionne ha cambiato interlocutori nel sindacato, con qualche problema. Se il capo di Uaw, Ron Gettelfinger, gli concesse tutto alla Chrysler nel 2009, compresa la rinuncia al diritto di scioperare fino al 2014, il successore Bob King l’ha lasciato in sala d’attesa a far fuoco e fiamme per la firma del rinnovo del contratto, preferendo incontrare prima i dirigenti della Gm.
Una lezione di stile. Che per altro non manca al capo di Fiat-Chrysler: ha dato l’intervista sul giornale che possiede al giornalista che per primo gli ha fatto i conti in tasca e non gli ha mai risparmiato critiche dure. Se Marchionne costruisse macchine con la stessa classe, chissà che le fabbriche italiane potrebbero avere un futuro migliore.
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