Dopo il Corano brucia anche il paese: 12 morti

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Sempre più pesante, in Afghanistan, il bilancio delle manifestazioni contro la dissacrazione di alcune copie del Corano, trovate bruciate all’inizio della settimana nella base militare statunitense di Bagram, a nord di Kabul. Nel quarto giorno di proteste (foto Reuters), alle diciassette vittime accertate finora ne vanno aggiunte almeno altre dodici. Sette nella sola provincia di Herat, dove ha sede il contingente italiano. Gli scontri più duri sono avvenuti nel distretto di Adraskan, dove sono morte quattro persone, mentre un migliaio di manifestanti hanno cercato di assalire il consolato americano nella città  di Herat. Scontri anche a Kabul, dove per tutto il corso della giornata si sono alternate manifestazioni in varie parti della città , con un corteo che ha cercato di raggiungere il quartier generale della Nato, e nelle province di Baghlan, Khost, Kunduz, Bamiyan, Ghazni e Nangarhar, dove quattromila persone hanno bloccato la strada che da Jalalabad conduce a Kabul. Assaliti anche dei compound militari francesi, norvegesi e americani. Da parte loro, i tedeschi hanno fatto sapere di voler anticipare di un mese la chiusura di una base a Taloqan, nella provincia di Takhar. 
Cresce il numero dei morti, dunque, e cresce il timore della comunità  internazionale. A nulla sono servite le scuse dei giorni scorsi. Dopo il segretario alla difesa Usa Leon Panetta, due giorni fa anche Barack Obama si era scusato per l’accaduto con una lettera indirizzata al presidente Karzai, assicurando un’inchiesta rigorosa e trasparente, mentre il generale John Allen, capo delle forze Isaf-Nato, ieri è tornato a rivolgersi agli afghani, chiedendo pazienza e sostenendo che «lavorare con la leadership afghana» e aspettare i risultati dell’inchiesta ufficiale «è l’unico modo per correggere questo grande errore e impedire che accada di nuovo». Parole respinte al mittente dai manifestanti, della cui rabbia i Taleban cercano di approfittare: giovedì l’Emirato islamico d’Afghanistan ha pubblicato due messaggi ufficiali.
Con il primo, invitava i giovani afghani, specie quelli che lavorano «nell’apparato della sicurezza del regime di Kabul, a obbedire ai propri obblighi religiosi e nazionali, pentendosi dei peccati passati» e «rivolgendo le armi contro gli infedeli invasori» (2 soldati Usa sono stati uccisi giovedì da un militare afghano). Con il secondo messaggio, i turbanti invitavano la popolazione a «non accontentarsi di mere proteste e slogan vuoti», per «colpire le basi militari degli invasori, i convogli, le truppe…Uccidiamoli, colpiamoli, facciamoli prigionieri», questa l’esortazione dei turbanti neri. L’appello era rivolto a tutti i membri dell’Ummah islamica, e chiedeva esplicito sostegno a due influenti scuole teologiche, quelle di Darul Uloom Deoband e di Al Azhar.
La risposta non si è fatta attendere: un portavoce del ministero degli esteri pakistano ha condannato nel modo più assoluto la profanazione del Corano, e in alcune città  del Pakistan il partito islamista Jammat-e-Islami ha organizzato proteste, avvenute anche in Bangladesh e in Malesia, mentre dall’Iran è arrivata la voce del religioso sciita Ahmad Khatami, che con una messaggio radiofonico ha fatto sapere che «le scuse sono un imbroglio. Il mondo deve sapere che l’America è contro l’Islam».
Dagli Usa sembra dargli ragione il candidato repubblicano alla presidenza, Newt Gingrich, che ha criticato Obama per le scuse rivolte a Karzai, definendole un «oltraggio» e suggerendo che sia «Karzai a scusarsi con il popolo americano».


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