La Guerra di Angelina. Luci (scomode) sulla Bosnia
A me risulta che quel film a Belgrado abbia fatto esplodere un mezzo caso diplomatico. Dunque, questi sono gli ingredienti: Corriere della Sera; Bernard Henry-Levy; Serbia; Tribunale dell’Aja; Angelina Jolie; Hollywood; Stati Uniti; NATO; intervento in Kosovo. Basta amalgamare con amore, ed ecco che si ottiene la soffice torta della nonna. Quando Angelina Jolie mi ha domandato di presentare con lei, alcuni giorni fa, a Parigi, l’anteprima del suo film «In the Land of Blood and Honey» («Nella terra del sangue e del miele»), è evidente che le abbia chiesto innanzitutto di vederlo; dopo, non ho esitato un attimo. Infatti, che storia! Ecco una grande attrice hollywoodiana. Una delle star più quotate, più celebri, del cinema mondiale. Un grande nome di cui nessuno dubitava che, se un giorno avesse deciso di passare dietro alla cinepresa, avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta su soggetti, finanziamenti, sceneggiature e, beninteso, sugli attori, che avrebbero fatto a gara per avere il privilegio di partecipare all’avventura.
In effetti, Angelina Jolie passa dietro alla cinepresa, e che accade? Gira un film d’autore, con attori bosniaci sconosciuti, in una lingua, il bosniaco, che, in America come in Europa, sembra una lingua improbabile. Ambienta il film in un angolo morto della storia del XX secolo, nel periodo di dolore assoluto e al tempo stesso di indegnità e di vergogna per le nazioni che lasciarono fare: la guerra di Bosnia.
Il risultato è un film che, intanto, ha un tono incredibilmente giusto. Conosco i luoghi che evoca. Ho visto, nella vera vita, uomini e donne che assomigliano come fratelli e sorelle a Danijel e Ajla, i Romeo e Giulietta di questa storia d’amore su uno sfondo di campi di concentramento e di orrore. E lo stupro concepito come arma di guerra, l’umiliazione di un popolo attraverso il corpo martirizzato delle sue donne, la pulizia etnica attraverso il loro ventre — che non sono lo scenario, ma il soggetto del film —, li avevo filmati in «Bosna!», il mio documentario del 1994. Ebbene, il film che la Jolie dedica a questi drammi, ricostituendoli, quasi vent’anni dopo, in Ungheria, mettendoli per iscritto, in scena e nelle didascalie, sono di una verità lampante e ritrovano il soffio, la violenza nera, che furono il marchio della realtà e di cui, ahimè, posso testimoniare.
Il risultato è un caso raro, e molto commovente, di trasmissione riuscita. Angelina Jolie era un’adolescente all’epoca dei fatti che riferisce. Li ha conosciuti solo attraverso un vago e probabilmente tardivo sentito dire. Ai tempi in cui alcune persone più anziane — Peter Schneider e Hans Christoph Buch in Germania; Salman Rushdie in Inghilterra; Christopher Hitchens o Susan Sontag negli Stati Uniti; l’autore di queste righe con altri, in Francia — temevano che Sarajevo segnasse la fine di un’Europa che stava offrendo al XXI secolo la sua nuova e non meno tormentosa guerra di Spagna, lei stava ancora sognando sui suoi ruoli in «Glass Shadow» e «Hackers». Adesso raccoglie il testimone, riprende la fiaccola, continua in qualche modo la lotta e, non contenta di rivivere quello che noi abbiamo vissuto, compie il miracolo, sempre sconvolgente quando si produce, di fare storia della nostra memoria.
Il risultato è, infine, un atto politico, cosa che il cinema genera sempre meno. Un film impegnato? Di parte? Un film che non teme di dare battaglia e di prendere il rischio, quando è necessario, di essere tacciato dai cretini di manicheismo? Sì, certo. Infatti, è un film che dice pane al pane e vino al vino. È un film che, ben lontano dall’unanimismo lamentoso che si sarebbe potuto paventare provenendo da una pura creatura dell’industria hollywoodiana, chiama i miliziani serbi dell’epoca «fascisti» e ha cura di distinguere, nella confusione di quei tempi bui, vittime e carnefici. Per citare Godard, «non è giusto un film, ma un film giusto», che rende giustizia ai morti e onore ai sopravvissuti.
Quando «Nella terra del sangue e del miele» è stato proiettato a Sarajevo, il pubblico, per lunghi minuti, ha esitato fra lacrime ed evviva. È normale, perché le donne violentate che da vent’anni tacevano, i bambini nati da quegli stupri, che stanno diventando uomini e vivevano la loro genealogia come un obbrobrio, la società bosniaca per cui questo era il segreto più doloroso, realizzavano che una grande attrice, oltre che una grande signora, metteva il proprio prestigio al loro servizio e li incitava, per la prima volta, a rialzare un po’ la testa.
Ho conosciuto una situazione simile, quarant’anni fa, in Bangladesh, quando un capo di Stato musulmano, il presidente Mujibur Rahman, decise coraggiosamente di chiamare «birangona», letteralmente «eroine nazionali», le decine di migliaia di giovani donne che erano state violentate dai mercenari dell’esercito pachistano e che, per questo, erano state messe al bando dalla società e, spesso, dalle loro stesse famiglie. È, mutatis mutandis, il gesto di Angelina Jolie. Ed è quel che fa del suo film un’opera di cupa grandezza.
Le nostre strade si erano incrociate una prima volta in memoria di Daniel Pearl (giornalista statunitense rapito e poi ucciso in Pakistan, ndt), di cui interpretò la vedova in un film. Poi, una seconda volta, il 25 febbraio 2007, a Bahri, nel Sudan del Nord, dove aspettavo di poter passare clandestinamente nel Darfur e dove lei era venuta a visitare i campi profughi. Quest’ultima volta è quella buona: ci siamo ritrovati all’incrocio fra una imprescrittibile sofferenza e la sua iscrizione nel registro di un’opera d’arte.
(traduzione di Daniela Maggioni)
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