SOPHIE CALLE: “PERCHà‰ L’ARTE È UNA TERAPIA CONTRO L’ASSENZA”

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PARIGI – L’orizzonte del mare, una scultura di Rodin, il verde, un uomo biondo, un gregge di pecore, un quadro, il viso di Alain Delon. La bellezza negli occhi di chi non può vedere. Aveugles è l’ultimo progetto di Sophie Calle, una delle maggiori artiste francesi contemporanee, esposta al MoMA di New York, alla Tate Modern di Londra e alla Biennale di Venezia. Minuta e spigliata, cinquantanove anni, vive tra la Camargue e un’ex fabbrica della periferia parigina. All’arte si è avvicinata per caso, dopo aver tentato molte altre strade. Gauchiste sessantottina, figlia dei fiori in California, modella in una scuola di disegno, contadina in una fattoria, spogliarellista. Nel 1978 comincia a pedinare sconosciuti nelle strade, fotografando ogni movimento. Filatures parisiennes è la prima opera. Immagini e testo, diventerà  il suo marchio. «Parto sempre da un’idea di mostra. Solo dopo, eventualmente, nasce il libro» racconta Calle che segue percorsi creativi entomologici, quasi forensi, su un labile confine tra pubblico e privato. Si fa assumere in un albergo di Venezia per documentare le tracce lasciate dai clienti (L’Hotel), mette in scena con oltre cento voci il testo di una lettera di rottura scritta dall’amante (Prenez soin de vous), riprende in diretta la morte della madre (Rachel, Monique). 

Aveugles è un’opera mistica, visionaria. Com’è nata?
«È uno dei miei progetti preferiti. Ho incominciato nel 1986 ad avere voglia di preparare una mostra sulle persone non vedenti dalla nascita e sul loro concetto estetico. All’inizio mi sono frenata. Temevo di porre una domanda che poteva risultare scomoda, crudele. Poi ho conosciuto un non vedente e gli ho chiesto: “Cos’è per lei l’immagine della bellezza?”. Lui mi ha risposto: “Il mare, il mare a perdita di vista”. È il suo ritratto che apre il libro».
Il libro ora pubblicato da Actes Sud raccoglie progetti successivi?
«Nel 2010 sono rimasta tre mesi a Istanbul, scoprendo che era chiamata “la città  dei ciechi”. Ho tentato di proporre a dei non vedenti di mostrarmi la città , ma la barriera linguistica era insormontabile, la traduzione uccideva ogni poesia. Allora ho chiesto a delle persone che avevano improvvisamente perso la vista di raccontarmi l’ultima immagine che si ricordavano, ed è Dernière Image. Nel libro c’è anche un altro progetto. Ho incontrato delle persone di Istanbul che non avevano mai visto il mare che pure circonda la città . Siamo andati in una spiaggia. Prima li ho lasciati camminare verso la battigia, rimanendo dietro di loro. Quando si sono voltati verso di me ho fotografato il loro sguardo sconvolto da una visione inedita. L’insieme di questi lavori sarà  esposto nel mese di luglio ad Arles».
Segue un rituale nella creazione?
«Ogni mia opera è realizzata per essere appesa al muro. Non ho un atelier come un pittore. Solo una scrivania, un computer, un laboratorio fotografico e un corniciaio. In fondo, la mia è routine molto banale. L’ispirazione può nascere durante un incontro, una passeggiata, un viaggio, una lettura. Altre volte attingo alla mia esperienza personale. Non ho una regola, è tutto abbastanza casuale. Quando poi sono nella fase di creazione divento estremamente metodica, seguo schemi di lavorazione precisi, ho bisogno di controllare ogni dettaglio».
Quando trova il punto di equilibrio tra testo e fotografia?
«Con la scrittura ho un rapporto maniacale. Scrivo e riscrivo, mi dilungo, poi taglio, sono molto esigente, cerco un mio stile. Fino a poco tempo fa, invece, non mi consideravo una fotografa professionista. In Aveugles ho usato immagini di varia provenienza, non sempre scattate da me. Nel progetto Detectives, non c’è una sola foto che abbia fatto io, sono tutte di un investigatore privato. Nelle camere d’albergo le immagini sono usate più che altro come appunti. Il punto di svolta è stato Prenez soin de vous. In quella mostra il testo esisteva già . A me restava solo la creazione visiva. Ho dovuto concentrarmi su quello, conquistando una nuova sicurezza».
Potrebbe scrivere un romanzo?
«Non so inventare. Quello che faccio nel mio lavoro è organizzare una serialità , un rito, da osservare e raccontare con foto e testi. Se devo sperimentare piuttosto faccio dei giochi, delle performance. Sono salita in cima alla Tour Eiffel per farmi addormentare dalle storie di sconosciuti. Con l’architetto Frank Gehry abbiamo fatto sistemare una cabina telefonica a forma di fiore sul Pont di Garigliano. Ogni tanto chiamavo per parlare con i passanti. Ho anche un progetto di film con Pippo Delbono, un artista che stimo».
Gli spunti autobiografici sono importanti?
«Ci può essere un bisogno terapeutico, la voglia di superare un evento attraverso la creazione, come nel caso della lettera di rottura o la morte di mia madre. La priorità  rimane comunque la motivazione artistica. Mi servo di molte cose della mia vita, non di tutto. Per esempio nella nuova edizione di Histoires Vraies ho aggiunto tre racconti. Uno parla di una finestra nella mia casa in Camargue. La guardo da almeno vent’anni ma non avevo mai pensato di descriverla. Il tema conduttore delle mie opere è l’assenza. Degli sconosciuti che non mi vedono, un uomo che non mi ama, mia madre che se ne va».
In molte opere si intuisce il desiderio di penetrare l’intimità . 
«Sono stata cameriera in un albergo per raccontare i clienti attraverso quello che lasciavano nelle stanze. Ma anche in quel caso si vedevano solo dettagli. Se una persona dorme a destra, sinistra. Se indossa un accappatoio, una vestaglia. Di quale colore sono gli spazzolini. Niente di veramente osceno. Nessuno si è mai riconosciuto nelle mie fotografie. Neanche su di me rivelo mai cose straordinarie».
Perché ha deciso di diventare artista?
«Per piacere a mio padre. È stato un oncologo ma anche un collezionista. Nella sua casa erano appese opere di Warhol, Lichtenstein. Mi aveva colpito un quadro di Duane Michals che lavorava con testi e fotografie. Avevo 26 anni. Dopo aver girato il mondo, provato tutto, ho pensato che quella potesse essere una strada. Ha funzionato. Mio padre, poi, mi ha regalato quel quadro di Michals. Ora ha 91 anni e ha deciso di diventare editore. Insieme faremo un libro sui regali, Moi aussi, raccogliendo quelli che ho collezionato io tra il 1980 e il 1994 e quelli che ha ricevuto Franà§ois Mitterrand quando era presidente, dal 1981 al 1995».
Rachel, Monique è invece dedicato a sua madre e sarà  esposto quest’estate ad Avignone.
«Nel 2006 mia madre stava molto male. Avevo paura che morisse in mia assenza, perdendo qualche parola importante. Ho deciso di mettere una telecamera accanto al suo capezzale. Poi, quando è morta, ero insieme a lei. Tutte quelle riprese non avevano più senso, mi suscitavano emozioni violente. Con il tempo, riguardando le immagini, mi sono accorta che la cosa più incredibile è non aver visto la morte arrivare. Ci sono undici minuti in cui mia madre non c’è già  più e io non me accorgo. Sono partita da questo video per costruire una mostra più ampia, in cui ho aggiunto testi, fotografie, estratti dal suo diario e il viaggio che ho fatto al Polo Nord per seppellirla simbolicamente. Mia madre mi ha trasmesso la curiosità , la voglia di mettersi in scena, di raccontare storie. Ha scritto da sola il suo epitaffio: Je m’ennuie déjà , sono già  annoiata».


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