Maestri alla riscossa nel segno della lentezza
Un convegno, questo Didattica resistente. Ora e sempre resilienza!, fatto di insegnanti veri, maestri che non hanno perso il gusto d’insegnare, che hanno memoria della loro storia e di quella della scuola e sono orgogliosi di presentarla nelle dense relazioni delle loro esperienze, dall’handicap alla lingua, dal calcolo multibase al tempo pieno e ai moduli, dai voti ai libri di testo, dai migranti alla digitalizzazione della didattica. Irretiti e come paralizzati da un sistema che per anni ha messo «in corso un processo di annientamento della scuola pubblica», non ne possono più. Il vento che soffia invoglia a reagire: «Soprattutto – scrive Gabrielli nell’introduzione al convegno – mi è calata una sorta di irresistibile inibizione per le tante, troppe parole spese in passato e riesco a “parlare”‘ solo attraverso le piccole cose che faccio. Credo, almeno per me, che questa sia la sola possibile risposta alla mancanza di senso imposta dall’alto».
A riprendersi i modi della buona didattica, quella che sa parlare e avvincere coi mezzi raffinati delle tecnologie avanzate ma non dimentica la ricchezza del passato: «In ambito matematico, soprattutto, presi gusto alle lezioni del Dienes. E a quei pezzettini di legno sagomati che formavano la multibase». A riprendersi i tempi della didattica di buon senso, quella capace di rispettare i ritmi di maturazione dei bambini e di recuperare i momenti di riflessione, che sono propri del lavoro culturale di qualità : «I numeri sono veloci. Troppo. Io ho bisogno di lentezza. I bambini hanno bisogno di lentezza. Di quella che fermenta, che sedimenta. Anche di “quel tempo da perdere” nel quale, diceva Rousseau, “c’è il tempo che si guadagna”». A riprendersi quella competenza professionale mortificata dagli aggiustamenti di un sistema che sembra aver la ricetta per digerire ogni critica: «I libri di testo progressivamente si sono trasformati fino al “moderno” copia e incolla dei nostri giorni. Pezzi di racconti o libri raccattati qua e là dei quali il bambino percepisce l’esistenza di una trama precedente, di cui non conosce nulla, e intravede un proseguimento della vicenda, che mai gli sarà dato di sapere. A incorniciare il “testo” un’orda barbarica di esercizi di presunta comprensione (il cimitero delle crocette, anticamera della scuola a quiz)».
Ripensamenti che non dimenticano le esaltanti scoperte di una didattica che era prassi politica: «Quando non do il voto faccio un’azione sociale; non sto solamente valutando, ma sto invitando i bambini e i loro genitori a prendere in considerazione un diverso modo di vivere le attività , non centrato sulla competizione ma sul senso intrinseco che questa attività rappresenta, sul modo in cui l’ho realizzata. Quando studiamo la vita delle piante lo facciamo per il piacere che procura in collaborazione-cooperazione con gli altri, per il “valore d’uso” e non “di scambio” del sapere e della cultura». Ripensamenti che non sono nostalgia ma coscienza di una professione che si continua ad amare nonostante le delusioni di una politica che sembra infischiarsene della scuola e della cultura.
Resilienza hanno chiamato questa volontà di riprendersi la loro scuola, la nostra scuola, la scuola repubblicana laica e democratica, oggi umiliata. Non a caso nelle relazioni si sente la tradizione del Movimento di Cooperazione Educativa, di quando i maestri facevano degli alunni i protagonisti della vita della scuola: «Perché non si può fare scuola senza idee, senza iniziative, senza creatività , non si può preservare questo patrimonio collettivo arrendendoci al pessimismo, per noi stessi e per i bambini che non hanno colpa dell’ottusità degli adulti».
Oggi sottosegretario alla Pubblica Istruzione è Marco Rossi Doria, un insegnante elementare che, oltre a essere stato maestro di strada, si dice abbia conosciuto l’esperienza del Mce: sarebbe utile che volesse ricordarsene nelle sue nuove funzioni. Ma intanto «l’unica possibilità è rischiare, rimettersi in gioco in prima persona con tutta la fatica che innegabilmente ciò comporta».
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