«Loro odiano noi e la nostra cultura Noi odiamo loro»

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Le ragioni sono chiare alla gran parte della popolazione: la sicurezza manca, ed è oggi perfino peggiore di quanto fosse alcuni anni fa, mentre ai soldati stranieri manca qualsiasi sensibilità  verso la cultura locale. Se ne lamentano anche i religiosi che fanno parte dei Consigli riconosciuti dal governo di Kabul, le Shura-e-Ulema. Per il mawlawi Ruhal Ahmad Rohani, leader della Shura-e-Ulema di Farah, nell’omonima provincia al confine con l’Iran, sia la comunità  internazionale che il governo Karzai rispettano solo a parole i sentimenti religiosi della popolazione, e riconoscono a stento il ruolo dell’Islam nella società : «I religiosi sono molto importanti nella società  afghana, perché la maggior parte della popolazione è religiosa, e noi abbiamo contatti con tutti. La comunità  dei religiosi dovrebbe essere sostenuta, incoraggiata, aiutata. Invece, non riceviamo assistenza, né dalla comunità  internazionale né dal governo. Inoltre, soprattutto all’inizio ci sono state diverse incomprensioni con le truppe internazionali, perché quando sono arrivati non conoscevano la cultura afghana e si sono adattati lentamente». 
Se si punta lo sguardo altrove, nella provincia di Badghis, al confine con il Turkmenistan, il giudizio cambia poco. Per il mawlawi Mohammed Sardar Saraji, vice-capo della Shura-e-Ulema di Qala-e-now, il capoluogo del Badghis, «la comunità  internazionale non rispetta il ruolo degli ulema, figurarsi se ci fornisce assistenza. Non hanno ancora capito quanto sia importante l’Islam per gli afghani». Ancora più netta la posizione di Faruq Huseyni, a capo della Shura-e-Ulema di Herat: «Quando le truppe agiscono in modo corretto, non ci sono problemi, quando non succede, la gente si rivolta, e lo fa giustamente. Le truppe degli Stati uniti si comportano da criminali, compiono azioni sbagliate, bombardano le moschee, uccidono i civili, ignorano i valori e le tradizioni degli afghani. La gente li odia», sostiene animato Faruq Huseyni.
Non sono però solo i religiosi a chiedere un atteggiamento diverso da parte delle truppe straniere e, più in generale, della comunità  internazionale: «Gli stranieri non hanno una vera conoscenza della realtà  locale, di come funziona la nostra società  – sostiene Faisal Kharimi, giornalista e docente di giornalismo all’università  di Herat -. A volte compiono azioni che vanno contro la pubblica opinione, contro le nostre tradizioni, contro i nostri valori, anche religiosi. à‰ essenziale che rispettino la nostra cultura», ribadisce Faisal Kharimi. Oltre alla scarsa considerazione delle più rilevanti coordinate religiose e sociali dell’Afghanistan, tra le lamentele più diffuse c’è l’idea che le truppe internazionali agiscono al di fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta, esenti dallo scrutinio pubblico. Un tema, quello della sostanziale immunità  dei contingenti stranieri presenti in Afghanistan, che è stato sollevato negli anni passati anche da Philip Alston, dal 2004 al 2010 Special Rappporteur delle Nazioni unite sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie ed arbitrarie, che in un rapporto del 2009 ha sostenuto che in molti casi per gli afghani ordinari sia stato impossibile ottenere le più elementari risposte sui propri parenti arrestati o uccisi dalle truppe straniere. Mentre secondo i rapporti dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission, le poche occasioni in cui le forze Isaf-Nato hanno ammesso responsabilità  nell’uccisione di civili, sono avvenute solo dopo una forte pressione pubblica, e anche in quelle occasioni il riconoscimento è stato parziale, poco trasparente.
In Afghanistan, sono in molti a pensarla così: «In pratica le forze straniere operano fuori dalla legge, non devono obbedire alle leggi afghane, gli è concesso di fare qualunque cosa – accusa Abdul Rahim Rahmani, giornalista di Radio Hanzala, con sede a Qala-e-now. Inoltre, non proteggono i civili, non prestano attenzione alle conseguenze dei loro attacchi, ogni giorno sono diversi gli afghani uccisi. I civili devono essere protetti dalle forze internazionali, non uccisi». E’ proprio questo l’aspetto di cui più si lamenta la popolazione locale, sostiene Abdul Rahman Zhwandai, giornalista di Farah: «C’è un aspetto che tutti gli afghani sentono in modo particolare, e di cui si lamentano: il fatto che i soldati stranieri agiscano nel nostro paese come vogliono, senza doverne rendere conto a nessuno. Conoscono molta gente che si è lamentata con le istituzioni locali per non essere riuscita a sapere più niente dei propri cari, imprigionati, o per non aver ricevuto nemmeno le scuse, quando le forze internazionali hanno ucciso un loro caro».
Negli anni passati, in diverse occasioni la comunità  internazionale ha garantito che avrebbe finalmente adottato pratiche certe per assicurare la trasparenza delle sue azioni. Strumenti a cui la popolazione afghana possa appellarsi per rivendicare giustizia. A quelle promesse però non crede più nessuno, neanche Maria Bashir, procuratore capo nella provincia di Herat, la prima donna a ricoprire un ruolo simile. Quando, la scorsa estate, le abbiamo chiesto se si fidasse delle continue rassicurazioni della comunità  internazionale ha risposto così: «Per ora sono soltanto promesse… Se mi fido delle promesse fatte? No, non direi proprio».


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