Il mondo degli iperpoliglotti

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Quando gli si chiede quante lingue conosca, il filosofo americano Douglas Hofstadter risponde con un numero che incomincia così 1,97… e prosegue con altre cifre, tutte in ordine decrescente, dopo la virgola. Il numero rappresenta appunto le competenze linguistiche del geniale autore di Gà¶del, Escher, Bach (e di moltissime altre scorrerie in un campo intermedio fra informatica, logica, filosofia e semiotica). L’1 è la competenza che Hofstadter ha in inglese. Dopo questa, che è la sua lingua materna, compaiono le lingue acquisite, quelle (e sono parecchie) che Hofstadter conosce solo parzialmente: 9 sta per i nove decimi della competenza che si attribuisce in francese, 7 per quella in lingua italiana, e così via. All’epoca in cui me ne parlava, il numero più piccolo andava al russo, che aveva appena incominciato a studiare con l’intenzione di arrivare a tradurre l’Onegin di Puskin (cosa che poi effettivamente fece, segno che il voto che il filosofo si attribuiva in russo ha poi raggiunto la sufficienza). Si potrebbe estendere questo bizzarro sistema dal singolo parlante, a una intera lingua, ovvero a una intera cultura. Quanto inglese “sa” la lingua italiana? Quanto francese? Quanto russo, quanto turco? 
Le lingue servono per comunicare e comunicano anche fra di loro, ospitandosi, visitandosi, contaminandosi l’una con l’altra. Capitava agli immigrati, con gli esempi delle diverse Little Italy sparse per il mondo: la lingua italiana e ancor più spesso il dialetto natio giungevano ad arditi compromessi con la lingua incontrata nel paese d’arrivo; intanto il loro italiano o dialetto non seguiva più le evoluzioni dell’idioma che si continuava a parlare in patria e nei decenni si sono così cristallizzate gerghi che non sono ben altrimenti classificabili. 
Bassa o nulla scolarizzazione e apprendimento sul campo e dalla strada sono i connotati delle lingue creole, un tempo esclusiva dei quartieri poveri e delle città -ghetto. Oggi però esistono lingue creole anche nella fascia alta degli utenti, fascia in cui l’inglese è ormai entrato in contatto con ogni lingua madre, imponendo lessico e a volte anche sintassi con la forza della penetrazione economico-finanziaria. Il numero di Hofstadter è sempre più spesso, ormai quasi sempre, un 1,9…. dove l’uno è l’italiano e il 9 è (dovrebbe essere, si finge che sia) l’inglese.
Il consiglio che si dà  sempre alle coppie miste è di educare i figli a imparare sia la lingua materna sia la paterna, ma cercando di tenerle distinte, cioè di mescolarle il meno possibile. È un consiglio che dovrebbero seguire anche le culture: non mescolare l’inglese con l’italiano, creando il finto gergo dei “formattare” e degli “implementare”. Anche qui si corre però un rischio: quello di specializzare le lingue. Se la tendenza delle università  italiane a istituire corsi universitari tutti in lingua inglese diventerà  dominante non si finirà  per tagliare fuori la nostra lingua da ambiti peraltro di grande rilevanza economica? Bisognerebbe allora sapere più lingue, tenerle distinte momento per momento, ma parlare di tutto in ognuna di esse, come peraltro hanno sempre fatto gli studiosi di letterature comparate.
Trattandosi di istituzioni collettive, i “si dovrebbe” applicati alle lingue sono particolarmente vani. La tendenza effettiva è infatti del tutto opposta, e va verso il rimescolamento. Lo vediamo quando una parole come stage, oramai comunissima, viene pronunciata invariabilmente come se fosse inglese, e invece è francese. Ma mentre la lingua italiana non ha ancora ben capito come arrabattarsi con l’inglese, i ragazzi hanno già  cominciato a studiare il cinese: e prima o poi anche ideogrammi e tonemi incominceranno a salire di valore, fra i decimali del numero di Hofstadter.


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