Il boia non riposa mai. 676 esecuzioni a Teheran nel 2011

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Sono ben 676 le persone messe a morte in Iran nel 2011. Centotrenta in più rispetto al 2010, secondo un trend ininterrotto di aumenti che non conosce pause o flessioni dal 2005 in poi. Lo rivela il rapporto sulla pena capitale in Iran presentato dall’associazione Iran Human Rights ieri al Senato. Un elenco redatto con meticolosa serietà , basandosi sia sui dati forniti dalle autorità  sia dai racconti di fonti non ufficiali, vale a dire famiglie e avvocati delle vittime o testimoni oculari delle esecuzioni. Nel secondo caso la notizia viene ritenuta attendibile solo se proviene da due diverse fonti ufficiose. Il ché significa che con ogni probabilità  quella cifra di 676 impiccati è errata per difetto.
Il massiccio ricorso alla pena di morte è solo uno dei modi in cui si manifesta la sistematica violazione dei diritti umani nella Repubblica islamica. Particolarmente e tristemente significativa è la diffusione sempre più larga delle esecuzioni in pubblico. Furono 9 nel 2009, salirono a 19 l’anno seguente, e sono state ben 65 nel 2011. La valutazione di Mahmood Amiry-Moghaddam, portavoce internazionale di Iran Human Rights, che ha sede a Oslo e ha filiali in vari Paesi tra cui l’Italia, è che «il regime voglia che la pena di morte entri a far parte della cultura nazionale come fosse una pratica naturale». A questo mirerebbe in particolare il coinvolgimento di civili nella macabra dinamica degli assassini di Stato. I parenti delle vittime dei reati attribuiti al condannato, partecipano spesso all’uccisione. «Oltre ad avere sofferto le conseguenze del crimine, essi diventano così complici di un assassinio».
La maggior parte dei condannati a morte sono persone giudicate colpevoli di narcotraffico. Ma la scarsa trasparenza del sistema processuale iraniano lascia supporre che sotto quell’etichetta vengano puniti a volte altri reati, o magari persone innocenti. Le udienze si svolgono spesso a porte chiuse, e solo il 9% degli imputati vengono chiaramente identificati con nome e cognome.
Amiry-Moghaddam non sottovaluta alcuni miglioramenti introdotti nel codice penale iraniano. Ad esempio l’abolizione della pena di morte per i minorenni, seppure con alcune gravi ed estese eccezioni previste dalla legge, è un fatto positivo, e dimostra quanto siano importanti le campagne di informazione internazionali, perché se i legislatori di Teheran hanno attenuato certi aspetti particolarmente brutali del loro ordinamento giuridico, questo si deve in buona parte proprio «all’efficace pressione» arrivata dall’esterno. Dai governi e dalle associazioni per la tutela dei diritti dell’individuo.
Il nuovo codice che dovrebbe presto essere annunciato dal governo, non parla più della lapidazione per adulterio. Ma in mancanza di comunicazioni ufficiali, sia su questo sia su altri articoli del codice, restano dubbi. Ad approvare o meno un’eventuale sentenza di lapidazione, scrive ad esempio il quotidiano Sharq citando il vice presidente della commissione affari legali del Majlis (il Parlamento), sarà  la Guida suprema, e non come in passato alti membri del clero. Il ché potrebbe ridurne il numero di applicazioni concrete. Quanto alla pena di morte, un minore potrebbe anche non sfuggirvi se il giudice lo dovesse ritenere già  intellettualmente maturo. Al tempo stesso il codice vieta riduzioni di pena per atti ritenuti contrari alla sicurezza nazionale, così come per i reati economici. Un tema particolarmente attuale, quest’ultimo, dopo la grande truffa finanziaria per la quale il processo è iniziato proprio nei giorni scorsi a Teheran. Grave è la persistente persecuzione con la fustigazione o la morte dei comportamenti omosessuali.
Pietro Marcenaro, presidente della Commissione diritti umani del Senato, ritiene che le condanne a morte siano aumentate anche «perché usate come strumento di intimidazione e terrore contro l’opposizione. Ma per fortuna in Iran c’è ancora una società  civile che si muove». Per questo secondo Marcenaro sarebbe controproducente ricorrere a misure come l’interruzione delle relazioni diplomatiche con Teheran: «Sull’interpretazione dei diritti umani non esistono posizioni univoche nel clero sciita. E lo stesso vale per l’interpretazione del Corano e della Sharia. Il dialogo religioso e culturale apre spiragli che possono essere vitali per coloro che agiscono nel contesto sociale iraniano». Nella stessa logica, Marcenaro non è d’accordo con «chi pensa di cambiare le cose assassinando degli scienziati nucleari, come è accaduto più volte in Iran negli ultimi anni. «In questo modo si tappa la bocca proprio a chi in Iran si batte per la democrazia», perché si dà  pretesti a chi vuole reprimere ogni dissenso.


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