Syriana
«Mi hanno subito chiamato Al-Ghadab, “Collera”», dice il nostro passatore, e nella sua grossa barba si apre un sorriso malizioso. «E dire che invece rido sempre!». Tarchiato, tuta da jogging nera, due cellulari in mano, Collera sta in un appartamento gelido di Tripoli, nel nord del Libano. È con due libanesi; contrabbandieri, a quanto pare. Non è un professionista. «Quando è cominciata – ci racconterà poi – stavo per sposarmi. Ho dovuto scegliere: o la rivoluzione o il matrimonio». In luglio, quando si sono formate le prime unità dell’Esercito per la liberazione della Siria (Esl), ha cominciato a fare la spola per loro: trasporto di feriti, di materiale sanitario, di giornalisti come noi e di altro ancora. La sua famiglia è ricca. Insiste: «Non lo faccio per soldi».
Mattina. Piove fitto. Uno dei due libanesi, al volante di un furgoncino, ci porta – Collera, il fotografo Mani e me – su strade secondarie del monte Libano, evitando i posti di blocco dell’esercito libanese, fino a una grande pianura sassosa. La Siria è proprio di fronte a noi. A una svolta ci aspettano tre ragazzi, in moto. Nemmeno loro sono professionisti: semplici contadini del posto, con le mani rosse piene di calli. Viaggiamo su sentieri fangosi tra abitazioni e campi, incrociamo bambini malvestiti e con il moccio al naso, alveari, qualche cavallo, fino a una casa dove dei contadini sorridenti ci offrono il caffè. Una chiamata radio: via libera, si riparte verso un’altra casa del paese, un po’ più lontano. A quel punto mi arriva sul cellulare un sms, in inglese, del ministero del Turismo: «Benvenuto in Siria». Siamo passati al di là dello specchio.
Diversamente dai centri abitati che incontreremo più avanti, questo è tranquillo: «Qui non ci sono manifestazioni – spiega il nostro ospite – non vogliamo attirare i mukabarat (gli agenti dei servizi segreti siriani, ndr) e mettere a rischio il transito». Ma l’Esl non è lontano. Collera torna con un pick-up, ci pigiamo nell’abitacolo, e partiamo. Campi, frutteti, stradine dissestate; incrociamo, in rapida sequenza, un ufficiale dell’Esl, poi un posto di blocco, su un ponte, presidiato da combattenti che controllano l’andirivieni di pick-up e di camion: contrabbandieri provenienti dal Libano che trasportano tutto ciò che manca alla gente. Sul posto di blocco sventola una bandiera, nera, bianca e verde con tre stelle rosse: la bandiera della rivoluzione siriana. Il cellulare di Collera squilla ininterrottamente; l’Esl ha osservatori ovunque, per segnalare eventuali movimenti di truppe o posti di blocco volanti, i più pericolosi. Il giorno dopo, del resto, un amico di Collera, un disertore delle forze di sicurezza, verrà ucciso da una raffica di mitragliatrice proprio davanti a un posto di blocco di quel genere, non lontano da qui, mentre tentava di fuggire. Collera tiene una bomba a mano vicino al volante; se dovesse succedere, non lo cattureranno vivo.
Sulla strada, a qualche centinaio di metri, c’è uno dei posti di blocco fissi che circondano la cittadina di al-Qusayr. Collera devia su una strada sterrata e lo aggira percorrendo terreni abbandonati su cui sono accampate famiglie beduine. Poi si arriva all’abitato, dove ci destreggiamo per i vicoletti tra case a due piani di cemento sgretolato, tetre sotto la pioggia. Due settimane dopo, a Homs, un militante mi dirà : «L’Esl libererà Homs prima di Qusayr. Il regime non mollerà mai Qusayr. Se perdono Qusayr, perdono tutta la frontiera». Eppure sembra che l’esercito siriano non controlli già più la città . A parte i posti di blocco in periferia e alcuni carri armati nascosti alla meglio per via dell’accordo con la Lega araba, presidia davvero solo il municipio e l’ospedale, in centro.
Passerò più volte davanti al municipio, un grande edificio di quattro piani, in stile sovietico, con i vetri rotti, e sacchi di sabbia sul tetto per proteggere le postazioni dei cecchini. Fino a poco tempo fa i cecchini bersagliavano regolarmente le strade ma l’Els, dopo un attacco che gli aveva permesso di penetrare nell’edificio, ha concluso un accordo con il comandante, e i suoi uomini ora se ne stanno buoni. Di fatto l’Esl si muove liberamente in città , a volte su pick-up equipaggiati con una mitragliatrice pesante e, sulle portiere, il simbolo della “katiba al-Faruk”, l’unità responsabile della zona. Ogni sera, quando i civili scendono in strada per manifestare contro il regime, decine di uomini dell’Esl, armati, si posizionano agli incroci per proteggerli. «Interveniamo di rado», spiega un ufficiale che incontro il giorno dopo, con una quindicina di uomini, in una fattoria fuori dalla cittadina. «I posti di blocco restano trincerati e non ci danno fastidio. Attacchiamo solo quando l’esercito regolare tenta qualche operazione».
Il viaggio da Qusayr a Homs, una trentina di chilometri, si svolgerà nello stesso modo: passando da una casa all’altra, da un veicolo all’altro, da una persona all’altra. Una vasta rete di civili aiuta l’Esl e la rivoluzione. A ogni tappa, un veicolo o una moto parte a verificare se la strada è libera. E quando ci muoviamo c’è sempre qualcuno davanti, intorno, dietro; i telefoni squillano incessantemente per trasmettere le ultime informazioni. È come se, di fronte alla rete di controllo delle forze di polizia e di sicurezza del partito Baath e dei mukabarat, che da decenni domina la vita del Paese e in cui la popolazione è rimasta in un modo o nell’altro intrappolata, durante questi ultimi mesi la società avesse creato una rete alternativa, quasi altrettanto efficace, fatta di attivisti, civili, notabili, esponenti religiosi e, sempre più, di forze armate, i disertori che formano l’Esl. Questa rete alternativa resiste all’altra, la aggira e in parte comincia ad annettersela. Quando ci si muove tra la frontiera libanese e Homs, diventa visibile. Certo, continua a esserci una resistenza passiva al controllo del regime, ma ora la rete alternativa è diventata autonoma dalla prima. Quasi che, dalla primavera scorsa, la società siriana si fosse sdoppiata, e le due società parallele coesistessero, nel Paese, in un conflitto mortale.
Colpisce anche la coscienza politica dei normali cittadini coinvolti nella rivoluzione. Abu Abdo, uno dei nostri autisti, ci domanderà : «Allora, avete visto dei salafiti, qui, come dice Bashar?». «Dipende – risponde Mani. – Cosa intendi per salafiti?». «Appunto. La parola ha due significati. I musulmani siriani adottano la via della moderazione, e per condurre una vita onesta devono seguire l’esempio di un antenato pio: è questo il senso letterale del termine salafismo. L’altro, la corrente takfirista, jihadista, terrorista, è una creazione degli americani e degli israeliani. Non ha niente a che vedere con noi».
Poco dopo, durante una lunga pausa in una fattoria, si mostrerà molto critico nei confronti dei partiti di opposizione: «Oggi, diversamente di quanto accaduto a Hama, nel 1982, a ribellarsi è il popolo. I Fratelli musulmani, i comunisti, i salafiti e gli altri movimenti politici lo rincorrono per raggiungerlo e cavalcarlo. Ma la piazza rifiuta la politicizzazione del movimento. Accetta aiuti da qualunque parte vengano, ma non possono essere aiuti condizionati. La piazza non si è ribellata per rivendicare un’opzione politica precisa, ma per reagire all’oppressione e all’umiliazione. Il popolo siriano ha vissuto come in un pollaio: hai diritto di mangiare, dormire, fare l’uovo, e basta. Non c’è posto per il pensiero. È la Corea del Nord del Medio Oriente».
La conversazione continuerà per buona parte del viaggio. Costeggiamo un grande impianto chimico che emana un odore nauseabondo; più oltre si estende il lago di Homs, una sottile lingua azzurra; l’orizzonte è ingombro di nubi, ma da sotto brilla il sole, illuminando il paesaggio fangoso, caotico, dominato da quel dinosauro industriale con i suoi enormi cumuli di polvere gialla. Davanti a noi si staglia già l’autostrada Damasco-Homs, sopraelevata e percorsa da molti mezzi, come in tempi normali. È l’ultimo ostacolo da superare, strettamente sorvegliato dall’esercito regolare. Ma anche qui l’Esl ha le sue risorse, che bisogna mantenere segrete. Al di là dell’autostrada ci aspetta un’altra macchina, con due giovani combattenti dell’Esl. Partiamo in fretta. Il tessuto urbano si infittisce, è la prima periferia della città . Poco più avanti, in mezzo a un viale abbastanza largo, un posto di blocco dell’Esl controlla un incrocio. Proprio alle sue spalle c’è il quartiere liberato di Baba Amr.
* * *
«Baba Amr è uno Stato nello Stato». A dirlo è il soldato B., un bell’uomo con una faccia arguta ed espressiva, e occhi scintillanti, accesi dalla fede quanto dal digiuno che sta osservando dal giorno in cui, a dicembre, è entrato a far parte dell’Esl. Non è un disertore, come la maggior parte dei commilitoni, ma un civile di Aleppo che, sconvolto dai crimini del regime, ha deciso di imbracciare le armi. Ovviamente questa frase l’ha pronunciata prima del 4 febbraio, quando l’esercito siriano – Jaysh-e-Assadi, “l’esercito degli Assad”, come lo chiamano gli oppositori – ha cominciato a bombardare a tappeto il quartiere, facendo centinaia di vittime. Fino a quel momento Baba Amr era considerato un «quartiere liberato».
È il tipico quartiere popolare all’estremo limite della città dove, in tempi normali, i borghesi non mettono piede, un quartiere di edifici di cemento, alti quattro o cinque piani, a volte rivestiti da lastre di pietra levigata e in gran parte non terminati, affastellati lungo viuzze dove a stento possono incrociarsi due veicoli, e abitato da lavoratori e da donne velate che riesci appena a intravedere. Agli angoli delle strade venditori ambulanti offrono scodelle di foul (zuppa di fave, ndr)che viene avidamente mangiato con le dita; i ragazzini portano sciarpe e berretti nero-bianco-verdi sferruzzati dalla mamma oppure blu e arancione: i colori della rivoluzione o quelli dell’Al-Karama, la squadra di calcio di Homs. Davanti alla moschea Gilani sono ammonticchiati i catafalchi vuoti, pronti per l’uso; dietro, sono state già scavate due tombe nel terrapieno, caso mai i cecchini impedissero l’accesso al cimitero. Fa un freddo cane, umido e pungente, il cielo è grigio, affogato in una nebbia contro cui si stagliano le facciate degli edifici e i minareti, e attraverso cui riecheggiano gli spari, le deflagrazioni improvvise delle granate, e gli appelli alla preghiera.
L’Esl controlla il perimetro del quartiere. È un’autentica linea del fronte, che attraversa appartamenti sfasciati, crivellati dai proiettili e dalle granate, pieni di fango e macerie, di bei divani rovesciati, televisori bruciati, letti fatti a pezzi. A ovest, di fronte ai frutteti e allo stadio, c’è Haqura, dove Mani e io viviamo da quasi una settimana con un’unità dell’Esl. A parte due o tre irriducibili, i civili sono fuggiti tutti. I vicoli che sbucano nella terra di nessuno sono protetti da sacchi di sabbia, ridicola barriera contro i carri armati. Nei muri degli appartamenti e dei giardini sono state praticate delle aperture per permettere ai combattenti di muoversi al coperto. Il posto di comando di Hassan, il capo dell’unità , dà su una via abbastanza larga, e spesso beviamo il tè sul marciapiede, intorno a un braciere, nonostante il rischio di un proiettile di mortaio: «Insh’allah», ridono gli uomini.
Una mattina veniamo svegliati da un fuoco più sostenuto del solito. Alcuni soldati piombano nell’appartamento, scuotono chi sta dormendo, tirano fuori dalla stanza che serve come magazzino per le armi mitragliatrici, nastri di munizioni e lanciarazzi. Li seguiamo correndo verso il posto di comando, e poi in una via fiancheggiata da edifici, dove saliamo al primo piano. In una stanza devastata un combattente spara raffiche di mitragliatrice attraverso lo squarcio aperto da una granata; un altro, in salotto, esplode colpi di rusi, come qui chiamano il kalashnikov; l’appartamento si riempie dell’odore di cordite. Ci spiegano: un cecchino ha cominciato a sparare sui civili dal grande edificio di fronte, ancora in costruzione; ci sono quattro feriti. L’Esl risponde, cerca di farlo sloggiare. Continuerà così per quasi quattro ore, mentre noi sgusciamo da un appartamento all’altro per osservare. Le postazioni dell’esercito regolare non sono lontane, duecento o quattrocento metri; se ci si arrischia a gettare un’occhiata, si vedono chiaramente i sacchi di sabbia. Stando sui tetti, si sentono i proiettili fischiare o schioccare sui muri; di tanto in tanto la deflagrazione di un lanciarazzi scuote l’aria. L’Esl non tenta di conquistare le postazioni nemiche, si limita a costringere i cecchini a ritirarsi e smettere di sparare sui civili.
Baba Amr non è stato messo in sicurezza in un colpo solo. In novembre, l’ultima volta che Mani è stato qui, un posto di blocco delle forze regolari controllava ancora un incrocio in centro, e i suoi cecchini sparavano sulle strade tutto intorno, dividendo di fatto il quartiere in settori. «Siamo riusciti ad accerchiarli – ci spiega un vice di Hassan, – e gli abbiamo tagliato i viveri. Poi, quando sono arrivati gli osservatori della Lega araba (ai primi di gennaio), ce ne siamo serviti per negoziare la loro ritirata, senza spargimento di sangue. Resta sempre un altro posto di blocco in fondo al viale, ma adesso è molto più vulnerabile, e non spara più sulla gente per paura della nostra reazione». Per i combattenti dell’esercito di liberazione, la missione è essenzialmente proteggere i civili. «In teoria l’esercito non dovrebbe essere di parte – scandisce, un pomeriggio, il tenente Abdel Razzak Atlas, uno dei comandanti della katiba Al-Faruk che si vanta di essere il primo ufficiale siriano ad avere disertato, nel giugno 2011 – Dovrebbe proteggere il popolo e la nazione. Invece fa tutto il contrario». B., il volontario di Aleppo che, scesa la sera, recita ai commilitoni splendide poesie in arabo classico, è più lirico del suo capo: «Noi combattiamo per la nostra religione, per le nostre donne, per la nostra terra, e da ultimo per salvare la pelle. Loro combattono solo per salvare la pelle».
Prima di aver disertato, quasi tutti i combattenti dell’Esl devono avere partecipato a operazioni di repressione. Pochissimi sono disposti ad ammettere di avere ucciso qualcuno. «Io? Ho sparato in aria», dicono per lo più. Ma il disgusto per quello che sono stati costretti a fare, il senso di colpa, sono palpabili. Lo si avverte dall’insistenza con cui ognuno vuole mostrarti il tesserino militare. Valga per tutte la testimonianza di un ex soldato che incontriamo in centro: «Ci hanno mandati in strada a combattere le bande armate. Io non vedevo nessuna banda armata. Allora gli ufficiali ci hanno detto: “Le munizioni non costano niente, sparate, sparate il più possibile”».
I disertori descrivono un esercito regolare allo sfascio. Più volte gli ufficiali dell’Esl con cui mi trovo ricevono informazioni, precise e dettagliate, da colleghi rimasti in servizio, e ricevono anche, per denaro o per la causa, armi e munizioni. Il tenente Atlas mi spiegherà come avesse tentato, in maggio, di organizzare con altri ufficiali l’ammutinamento di due brigate e di un battaglione. «Era tutto pronto. Ma gli altri non hanno voluto andare fino in fondo per paura di essere annientati dall’aviazione». È questo il vero motivo della richiesta di una no-fly zone, reiterata a ogni manifestazione, una richiesta che sorprende l’Occidente perché, a differenza di Gheddafi, Bashar al-Assad non ha ancora fatto ricorso all’aviazione contro i civili. «Se otteniamo una no-fly zone – insiste Atlas, – metà dell’esercito si ammutinerà . Il regime sarà spacciato».
«È un esercito di ladri, – borbotta Abu Amar, un sottufficiale – ci vanno solo i poveri. È un esercito di incompetenti, che non funziona. Serve solo a ingrassare la comunità alawita». A questa setta sciita dissidente, considerata eretica da molti musulmani, appartengono il clan al-Assad e la maggior parte dei comandanti delle forze di sicurezza. Nell’Els gli alawiti sono pochi, ma ce ne sono. Ne incontro uno, Fadel, a un posto di blocco di Baba Amr: «Quando ho visto l’esercito uccidere dei civili – mi spiega di fronte ai suoi commilitoni – ho pensato: “Io non sono con loro, sono con il popolo”. Non ho detto: “Io sono alawita, perciò sto con gli alawiti”. No. Se loro agiscono male, io cerco di agire bene». Tuttavia la stragrande maggioranza dei combattenti dell’esercito di liberazione è sunnita, e lo si vede dai simboli, dai nomi delle katiba, come “Khalid ibn Walid” (il più importante generale del Profeta) o “Kawafil el-Shuhada” (“Le carovane dei martiri”). Una scelta che molti criticano aspramente. «Perché questi nomi? – si chiede M., un attivista rifugiato a Beirut, anche lui sunnita – è la nostra rivoluzione, non la rivoluzione del Profeta! Abbiamo i nostri martiri, potrebbero usare i loro nomi».
All’orizzonte di questa sunnizzazione della rivolta c’è la tentazione della jihad. È senza dubbio il rischio più grosso che incombe sull’esercito di liberazione, perché farebbe il gioco di Assad. Ma questo argomento non scoraggia gli ufficiali dell’Esl, per lo meno a Homs. Abdel Razzak Atlas ce lo dirà in modo esplicito: «Se continua così, diventeremo davvero come Al Qaeda. Se il mondo ci abbandona per appoggiare Assad, saremo costretti a proclamare la jihad, per far venire dei combattenti dal mondo musulmano e internazionalizzare il conflitto». Atlas insiste: non si tratta di un punto di vista personale, il comitato militare di Homs ne ha discusso e tutti sono d’accordo. Me lo confermeranno altri ufficiali. Questa idea – sia chiaro – non è il risultato di una radicalizzazione religiosa, ma di un calcolo strategico, per quanto ingenuo. Secondo Atlas, proclamare la jihad potrebbe portare a un caos di tipo iracheno, forse persino a una guerra regionale, e questo rischio forzerebbe la mano all’Occidente, costringendolo finalmente a intervenire. Il giovane ufficiale siriano non conosce bene il mondo fuori dal suo paese, le sue logiche e i suoi condizionamenti. Ma esprime l’appello delle masse in rivolta contro il regime: «Il popolo vuole un intervento dell’Onu!». Un mese fa non era così; la disperazione ha cambiato le carte in tavola.
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