Addio al “Pulitzer” Shadid il reporter della Primavera araba
NEW YORK – Anthony Shadid, il reporter che ha rivelato al mondo gli orrori della guerra in Iraq e le speranze della Primavera Araba, è morto al fronte non di un attacco nemico ma di un attacco di asma: testimoniando davvero fino all’ultimo respiro come si vive, e muore, in quella terra dove la normalità è il pericolo. Il messaggio ha lampeggiato sui Blackberry e gli iPhone nell’ora in cui gli amici del New York Times si affrettavano a chiudere il giornale: «Da Jill: morte di un collega». Jill è Jill Abramson, la direttora. E la sua email diceva proprio questo: «Anthony è morto come è vissuto. Determinato a testimoniare la radicale trasformazione nel Medio Oriente. E la sofferenza della gente tra l’oppressione del governo e le forze d’opposizione».
Anthony Shadid era entrato in Siria per il suo ultimo reportage: naturalmente di nascosto perché solo così avrebbe potuto contattare e parlare con le fonti giuste e la gente vera. L’aveva già fatto altre volte. L’anno scorso, per esempio, dopo l’ennesima intervista-scoop aveva ricevuto l’invito ufficiale a “visitare” il paese da Rami Makhlouf, il potentissimo cugino di Bashar Al Assad, proprio mentre il dittatore cominciava a schiacciare nel sangue l’opposizione. Il reporter c’era andato davvero. Ma sempre di nascosto: «Sentivo che la Siria era importante e che la storia non poteva essere raccontata diversamente: valeva la pena correre il rischio».
Anche stavolta valeva la pena correre il rischio. Con il fotografo Tyler Hycks era entrato dalla Turchia aprendosi una breccia nel filo spinato del confine. Da lì, a dorso di cavallo, per montagne e deserti. Dice ora l’amico fotografo che forse proprio una qualche allergia ai cavalli può essere stata fatale. Rashid si era già sentito male e l’altra sera, nel viaggio di ritorno ancora a cavallo, ha avuto un nuovo attacco. Si è fermato appoggiandosi a un masso. «Tutto bene?» gli ha chiesto Tyler. E il giornalista è crollato senza più respiro.
Era più che un veterano. A 43 anni aveva già vinto due Pulitzer per i racconti dall’Iraq con il Washington Post. E adesso il New York Times che l’aveva strappato alla concorrenza tre anni fa l’aveva candidato al terzo: per i reportage sull’Arab Spring. I vincitori del premio giornalistico più prestigioso del mondo saranno resi noti ad aprile. Quando uscirà anche il suo ultimo libro: “Casa di pietra. Memorie di famiglia e di un Medio Oriente perduto”. E’ il racconto dei mesi passati nel villaggio libanese di Marjayoun: da dove i genitori immigrarono mezzo secolo fa per l’Oklahoma.
Aveva già sfiorato altre volte la morte: colpito a Ramallah, ferito al Cairo, rapito in Libia. Lascia la moglie, giornalista come lui, Nada Bakri sempre del New York Times, che gli ha dato un figlio, Malik, mentre l’altra figlia, Laila, l’ha avuta dal primo matrimonio. E lascia un grande vuoto tra i lettori che cercavano i suoi reportage anche per il conforto di un’analisi. Shadid frenava gli entusiasmi dell’Occidente. L’ultimo articolo l’ha scritto dalla Libia. Mettendo ancora una volta in guardia: troppi conflitti tra i ribelli, il cambiamento è ancora a rischio. Ha scritto su Twitter Blake Hounshell di Foreign Affairs: «Non riesco più neppure a ricordare quante volte ci siamo trovati intorno a un tavolo a dire: questa sarebbe una storia per Shadid o per qualcuno come lui. Ma non c’era mai nessuno come lui».
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