Quando Hollywood è anti-americana

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NEW YORK — Sean Stone, che sta preparando il terreno per un film del padre Oliver su Ahmadinejad, sta sostenendo la piena legittimità  del programma nucleare iraniano anche nella sua parte militare. Negli Stati Uniti c’è un piccolo drappello di artisti che spingono il loro radicalismo fino a ignorare le condanne della comunità  internazionale . «Da sincero anticolonialista quale sicuramente è, Sean Penn si sbrighi a restituire al popolo messicano la sua lussuosa tenuta di Malibù: la sua occupazione di un terreno che è stato sottratto dagli Stati Uniti al Messico con un’aggressione spietata e imperialista è inaccettabile». Quella del Daily Telegraph è la più ironica e anche una delle più pacate tra le reazioni britanniche alle sortite dell’attore americano a favore delle rivendicazioni di Buenos Aires sulle isole Falklands.
«Le Malvinas sono argentine» ha detto giorni fa, incontrando nella capitale sudamericana il presidente Cristina Kirchner. «Londra accetti di negoziare davanti all’Onu. Il mondo trova ormai intollerabili simili manifestazioni di colonialismo ridicolo e arcaico». Davanti alla reazione furente dell’opinione pubblica e della stampa britannica che l’hanno accusato di giustificare una guerra a suo tempo scatenata da una giunta militare contro un pezzo di territorio legittimamente posseduto da una democrazia liberale, il protagonista di «Dead Man Walking», «Mystic River» e «Milk», un premio Oscar noto per le sue posizioni radicali, ha rincarato la dose: se l’è presa con la stampa («il buon giornalismo salva il mondo, quello cattivo lo distrugge») e col principe William, definendo la sua presenza nell’arcipelago dell’Atlantico meridionale (dov’è in servizio come pilota dei velivoli di soccorso) una «gratuita provocazione».
Nel mondo del cinema gli attori e i registi che sposano cause di estrema sinistra — personaggi a volte etichettati come «radical-chic» — sono molti. Di polemiche contro le «star» che inneggiano al riscatto del proletariato dalle loro mega-ville a Cortina, in passato ne abbiamo viste molte anche in Italia. Negli Usa c’è, però, un piccolo drappello di artisti che, oltre a chiedere più giustizia sociale in America, entrano «a gamba tesa» sulla scena internazionale, spingendo il loro radicalismo fino a ignorare i presupposti di legalità  e perfino le condanne della comunità  internazionale.
Insieme a Penn, in questi giorni a offrire ai giornali titoli da prima pagine ci sono Oliver Stone e suo figlio Sean, che si è appena convertito all’Islam sciita in una moschea di Isfahan. Sean, che ha da poco realizzato un documentario sulla vita e la cultura iraniana e che starebbe preparando il terreno per un film del padre su Ahmadinejad (Oliver dovrebbe arrivare presto a Teheran), era noto da tempo per le sue posizioni negazioniste sull’Olocausto e per aver messo in discussione la legittimità  dello Stato di Israele. Ora si spinge ancora più in là , sostenendo la piena legittimità  del programma nucleare iraniano anche nella sua parte militare. Quella delle conversioni non è una storia nuova nella famiglia Stone: Oliver, ebreo in gioventù, è diventato poi un cristiano episcopale per poi approdare al buddismo. E il figlio ora musulmano che ha cambiato il nome in Sean Alì, sostiene di non aver ripudiato cristianesimo ed ebraismo. Ora, però, si comporta soprattutto da seguace del presidente Ahmadinejad che lo ha premiato per il suo cortometraggio e ha partecipato con lui a Teheran a un convegno sull’«hollywoodismo» come fattore di degenerazione culturale.
Da George Clooney ad Angelina Jolie, di attori «liberal» impegnati nel sociale e che sostengono le cause dei popoli che considerano oppressi, ce ne sono molti. Personaggi ammirati che conducono battaglie spesso nobili e, comunque, sempre legittime. Ci sono, poi, i militanti sempre pronti a prendere posizioni di rottura come Jonathan Demme, il regista del «Silenzio degli innocenti» e di «Philadelphia» che ha fatto molto discutere col suo documentario sulla questione palestinese «Jimmy Carter, Man from Plains».
Ma solo Stone, Penn e Michael Moore hanno portato il loro radicalismo fino al punto di raccontare storie in modo totalmente unilaterale. Dalla Cuba «paradiso» della sanità  pubblica di Moore al regista di «Platoon» e «Nato il 4 luglio» che è addirittura arrivato a rifiutarsi di ascoltare le voci dei dissidenti quando, con «A Sud del confine», ha esaltato la figura del dittatore venezuelano Hugo Chà¡vez. La «rinascita socialista» dell’America Latina narrata da Oliver Stone affascina anche Sean Penn, pure lui a suo agio tra Cuba, il Venezuela e la Bolivia di Evo Morales con quale si è fatto ritrarre pochi giorni fa, un poncho sulle spalle e l’elmetto da minatore in testa.
«Chissà  perché tanta gente dello spettacolo si fa incantare da dittatori che presentano le loro scelte come ragionevoli e inoffensive» si chiede la National Review, organo della destra intellettuale. «C’è un termine per descrivere questo fenomeno: potemkinizzazione. Un processo al quale farà  ora ricorso anche il regime cubano, in vista della visita del Papa».


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