Giovanna Frene, versi sul legame tra etica e dolore

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Il volumetto si presenta anche tipograficamente assai denso, arricchito inoltre da una traduzione delle poesie in inglese a cura di Jennifer Scappettone e Joel Calahan: da ricordare che sia Zublena in un numero monografico di «Nuova Corrente» dedicato ai poeti, sia Scappettone in un fascicolo della rivista «Aufgabe», sia Calahan in un numero recentissimo della «Chicago Review», hanno ospitato poesie dell’autrice, riconosciuta da tempo (prima ancora della sua presenza nell’antologia Parola plurale, 2005) come una delle voci più interessanti della nuova poesia italiana.
Il pregio e il coraggio e perfino l’azzardo di questo nuovo libro consistono – lo sottolineano prefazione e postfazione – nell’assumersi l’onere tutt’altro che facile anzi decisamente rischioso di dire il male noto e invariabilmente nuovo, attraverso le forme storiche appunto percorse dal secolo passato e dall’incipit del ventunesimo: Shoah e crollo delle Torri. Le sezioni in cui il libro si divide sono anche scansione e riferimento a segmenti di questa storia.
Sul piano testuale è da osservare, rispetto ai libri precedenti, una verticalizzazione o meglio una crescita della modalità  frontale-assertiva. Dunque il bilanciamento tra allegoria disegnata-silente e dizione diretta di ciò a cui pure le allegorie rimandano pende decisamente a favore di quest’ultima, cioè a favore della dizione, dell’esplicito o esplicitato. In tal modo, la condanna e la delimitazione linguistica del condannato coincidono, singolarmente, come già  il testo in incipit afferma (dandoci allo stesso tempo un quadro di poetica politica): «viene dall’atto dell’abrasione il nesso di colpevolezza, / dal non mantenere inalterato l’abominio / comunque compiuto». I falsificatori, in sostanza, che tentano «di distruggere le prove», sono i nemici primi. Così, una frontalità  di dizione (non semplificatoria) viene a essere il passo successivo del lavoro poetico di Frene, che è sempre stato non disgiungibile da un asse tematico o legame diretto fra dolore e etica, che in questo libro assume un rilievo ancora più pronunciato.
Nello specifico del percorso testuale dell’autrice, coerente con testi già  studiati e già  paradigmatici (come il poemetto Spostamento, uscito per Lietocolle nel 2000), tutto Il noto, il nuovo riprende, rielabora e fissa in fotografie come di gelo l’inaggirabilità  (materiale) del dolore, e della responsabilità  che avvertirlo comporta: una responsabilità  disperante, perché chi si confronta con i segni di sofferenze proprie e altrui ingaggia comunque una battaglia persa dal principio, sia contro una oggettiva finitezza e un negativo creaturale o sociale, di cui Frene è sempre stata una delle più sanamente implacabili disegnatrici in versi («muore il resto; tutto sta // e miete»; o anche: «l’occidente comune della morte non muta, tagliato / il fiume, il gesto bruciato»), sia contro l’intenzionalità  nota e sempre nuova di zelanti esecutori di ordini e dunque volenterosi carnefici: «ordine dello strumento tagliente // scandito da teste». Dove l’anfibologia voluta del vocabolo «teste»non dissipa anzi raddoppia l’orrore e il male, soggettivo e storico, e soggetto di storia.


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