Le storie quotidiane dell’altro carcere

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L’idea del libro è originale, la sua stesura anche. Insomma, dopo Eva dorme (Mondadori 2010), Francesca Melandri presenta un romanzo (ma meglio sarebbe dire una novella o un racconto lungo) di notevole coesione, misura, intensità . Più alto del mare (Rizzoli, pagg. 200, euro 16) muove dall’idea di osservare la realtà  carceraria “al di qua delle sbarre”, raccontandola cioè dalla prospettiva dei parenti e degli agenti di custodia. Il tutto nel doloroso contrasto di una prigione immersa in un paradiso. In questa breve narrazione, infatti, l’ineluttabilità  del fato, la durezza della sanzione sociale, la distruzione dell’universo familiare, si stagliano contro lo splendore della natura: “Potevano i visitatori di un carcere speciale essere accolti dalla bellezza del creato. Sì, potevano. E questo era inganno, crudeltà , stortura”. 
Siamo alla fine degli Anni ’70, nel penitenziario di massima sicurezza dell’Asinara. L’arrivo di una tempesta blocca sull’isola due visitatori. Luisa, moglie di un assassino comune, ha lasciato la fattoria, che manda avanti da sola con i figli, per visitare il marito, un pluriomicida che la picchiava da anni. Paolo, un professore di liceo vedovo e prepensionato, si è recato a trovare il giovane figlio brigatista, autore di terribili delitti. La loro notte trascorrerà  insieme al “secondino” Nitti e sua moglie, una coppia divisa dai silenzi del marito, condannato a tacere la quotidiana violenza lavorativa. Nient’altro, se non un lento intessersi di simpatia e compassione. 
La riuscita del libro risiede nella linearità  del suo disegno, che può essere riportato alle tre unità  aristoteliche di tempo, di luogo, di azione. La storia si svolge nel giro di ventiquattr’ore, in un unico spazio, in un solo movimento. Anche senza svelare la trama, ciò che conta è la precisione e la plausibilità  con cui sono descritte figure tanto diverse fra di loro, a cominciare da una coppia che non potrebbe essere più incongrua: da un lato una contadina ingenua, intelligente, sensibile che non ha mai avuto nulla dall’amore; dall’altro un intellettuale distrutto dal destino del figlio, e convinto delle proprie responsabilità  di “cattivo maestro”. Ma al di là  dell’incontro fra queste due solitudini, la verità  di questa tragedia extra-carceraria o peri-carceraria (ossia consumata ai margini di un nucleo incandescente e impenetrabile), sta soprattutto nel persistente ricordo delle vittime. 
Piuttosto che indulgere nella compassione per i reclusi, i due protagonisti soffrono per la scia di sangue da loro provocata. E’ specialmente Paolo a soffermarsi su questo contrasto, rievocando l’infanzia incantata con il proprio bambino: “E con familiare sensazione di sgomento, sollievo e dolore, sentì quanto inestirpabile fosse l’amore che ancora provava”. Altrettanto interessante è l’immagine che emerge degli agenti di custodia, raccolti nel culto del loro patrono, San Basilide martire. Carceriere incarcerato, Nitti ha il cinismo di un vecchio, insieme ai turbamenti di una matricola. 
Certo, non manca qualche caduta, in genere dovuta a cedimenti verso un lirismo non funzionale al registro del racconto: il facile ricorso all’anafora (la ripetizione del primo elemento di una frase, con effetti di enfasi e sentimentalismo), o le insistite, talvolta prevedibili similitudini (il mare “come un orso”, i gabbiani “come teppisti”, i marangoni, altro tipo di uccelli, “come studenti”, lo sguardo “come un’arma”, i singhiozzi “come tuoni” e così via). Ma a parte questi rischi, il libro fila via svelto e severo, toccando temi tanto scabri con naturalezza, semplicità , pudore.


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