Torturatori in cella, anzi no

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Il processo vedeva sotto accusa cinque agenti di polizia penitenziaria per violenze nei confronti di due detenuti avvenute nel carcere astigiano. Le assoluzioni hanno fatto seguito alla derubricazione del reato: non maltrattamenti aggravati bensì abuso di autorità  per due degli imputati. E qui si superavano i tempi della prescrizione. Non maltrattamenti aggravati bensì lesioni lievi per altri due (il quinto è stato assolto per non aver commesso il fatto). E qui il processo andava interamente all’aria perché il reato è perseguibile solo su querela di parte, nel caso in questione mai avvenuta. 
Cosa sarà  accaduto dunque nel frattempo? A pensare male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre, diceva uno che di queste faccende se ne intendeva. Questa volta tuttavia, ora che le motivazioni della sentenza sono state rese note, si apre la possibilità  di un dubbio. Forse la scelta del giudice Riccardo Crucioli – che ovviamente non gradiamo nel fatto di mandare assolte persone che hanno usato violenze feroci e sistematiche su chi era sottoposto alla loro cura e custodia – si può intendere altrimenti che come la semplice copertura di malefatte. Le motivazioni della sentenza evidenziano un approccio formalistico che si poteva facilmente evitare interpretando le norme in maniera coerente con la gravità  degli accadimenti nel carcere astigiano. Ma forse il giudice ha ritenuto più utile alla causa dei diritti umani un verdetto di assoluzione costruito rigidamente in punta di diritto piuttosto che una condanna a qualche anno di carcere altrimenti raggiunta. Questa sentenza ha qualcosa di epocale. Nelle sue ottanta pagine racconta un sistema di brutalità  – detenuti appesi a cardini per i lacci delle scarpe, detenuti cui viene fatto lo scalpo, detenuti privati del sonno e del cibo, detenuti picchiati ripetutamente nel sonno – che è emerso dal dibattimento «al di là  di ogni ragionevole dubbio». E poi manda tutti assolti. Incredibile. 
Tre cose eccezionali fa il giudice estensore: 1. Cita per esteso la definizione di tortura scelta dalle Nazioni unite, per ricordare come l’Italia sia inadempiente di fronte al mondo nel non aver ancora introdotto questo specifico reato nel proprio codice penale; 2. Racconta in maniera puntuale un sistema di violenze e intimidazioni che era, appunto, sistematico, strutturato, organizzato, tollerato. Non singole mele marce, bensì «era possibile per gli agenti porre in essere tali comportamenti poiché si era creato un sistema di connivenza con molti agenti della Polizia Penitenziaria ed anche con molti dirigenti». La direzione, varie volte citata, non è estranea a questa «prassi generalizzata di maltrattamenti». Mai era stato detto così chiaramente: se in una istituzione chiusa quale è un carcere si usa sistematicamente la violenza – e in varie carceri la si usa – le responsabilità  non possono essere individuali, poiché il sistema non reggerebbe senza l’omertà  anche di chi non vi partecipa direttamente; 3. E qui arriva la conclusione di una sentenza che ci può apparire non da leguleio ma da colui che intende lanciare un messaggio attraverso l’utilizzo anche cavilloso delle norme: il giudice, dopo aver fatto notare come gli episodi ricostruiti fin lì si attaglino perfettamente alla definizione Onu della tortura, dimostra puntualmente come invece il maltrattamento aggravato di cui al capo di imputazione non possa rispondere di quei fatti. Non avendo a disposizione il reato di tortura, il giudice deve cercare altrove. E le uniche possibilità  offerte dal nostro codice sono quelle che comportano le due modalità  di assoluzione sopra menzionate. 
L’Italia, richiamata in sede internazionale sulla mancata applicazione della Convenzione Contro la Tortura, si è spesso difesa affermando che l’insieme delle fattispecie di reato previste nel nostro ordinamento sono di per sé sufficienti a coprire ogni ipotesi di tortura, senza necessità  di introdurre un reato specifico al proposito. Quel giudice oggi non suggerisce, bensì dimostra, che le cose non stanno così. Essendo la realtà  un sottoinsieme della possibilità , quel giudice ci indica degli accadimenti possibili in maniera incontrovertibile (in quanto accadimenti avvenuti nella realtà ) per descrivere i quali la definizione di tortura si dimostra perfettamente adatta, ma che tuttavia sono rappresentati nel codice penale italiano da fattispecie di reato tanto lievi da prevedere, una di esse, addirittura la querela di parte. Le ottanta pagine firmate dal dottor Riccardo Crucioli possono, così lette, costituire una pietra miliare della giurisprudenza. Purtroppo – e qui a pensar male ci azzeccheremo sicuramente – quasi nessuno le considererà .


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